“Vittima: sostantivo di genere femminile…ma guarda un po’”. È difficile che le parole diano corpo a tensioni inconfessabili, eppure definire l’orrore può essere ancora il primo passo per esorcizzarlo. Vincitore della prima edizione del Premio Cecilia Salvia nella sezione del “Festival femminile” della Basilicata, lo spettacolo “Sempre con me” di e con Carlotta Vitale per la regia di Mimmo Conte, presso il Teatro Genovesi, ha rappresentato la terza tappa della manifestazione Out of Bounds a cura dell’Officina Teatrale Laav di Licia Amarante e Antonella Valitutti. La dolce voce di Viola intona nel buio “Mon manège à moi”: la rimozione per sfuggire a ciò che le accade è un aspetto con cui deve misurarsi. Ha un marito violento che la rende prigioniera della sua stessa vita e ogni elemento della scenografia evidenzia questa condizione. Il pavimento è bianco e nero, come bianco e nero è l’abito appeso a una gruccia, spesso malmenato, con cui il personaggio, che indossa le stesse tinte, si identifica, e nere sono le sedie che circoscrivono lo spazio come punti cardinali mentre campeggia sullo sfondo un grande specchio. Questo cromatismo cocciutamente monotematico rimanda a un’assenza di reali aperture dialogiche: un carnefice non accetta nessuna alternativa al suo modo di sentire e lo specchio è a sua volta un muro che impedisce alla carne di spingere lo sguardo oltre le proprie ferite. In quello stesso riflesso però comincerà a nascere una nuova consapevolezza. La Vitale orchestra alla perfezione una gamma di registri espressivi che spazia dalla tenerezza alla recriminazione, dall’ironia al dolore e nell’interpretare le altre figure del copione (un macellaio che, al suo svenimento per lo stress, la crede narcolettica, una vicina, il coniuge) la scelta del monologo si rivela necessaria: nessuno è più solo di chi subisce un abuso e tutto non può che essere filtrato attraverso i suoi sensi. Il vocabolario consumato che agguanta alla ricerca di definizioni, spiegazioni, categorie racchiude in sé salvezza e limite, riscatto e incapacità della lingua di addomesticare quella forza oscura che fa coincidere piacere e sopraffazione e sembra attraversare intatta il tempo (la madre di Viola potrebbe essere stata uccisa dal padre e il testo avvolge tutto in un’affascinante ambiguità). Il coraggio della denuncia apre nuove vie (le sedie crollano al suolo), ma è arduo spezzare un vincolo malato, ammettere finalmente che chi ha inflitto cicatrici non sarà “sempre con me”.
Gemma Criscuoli