“Scannasurice”: “Io con fede l’aspetto”, l’amore, la Morte - Le Cronache Spettacolo e Cultura
Spettacolo e Cultura teatro

“Scannasurice”: “Io con fede l’aspetto”, l’amore, la Morte

“Scannasurice”: “Io con fede l’aspetto”, l’amore, la Morte

Gemma Criscuoli

Che gli inconvenienti siano tanti è innegabile: rosicchiano quaderni, prediligono i glutei delle ragazze, organizzano improvvidamente festini “a fronn’ e limon’”, per tacere di quella superiorità, quell’ “albagia” che fa venire voglia di impiccarli sulla pubblica piazza, così da non lasciare soli Corradino di Svevia e Luisa Sanfelice. Eppure, i topi, che, non visti, percorrono la messinscena, non sono semplicemente ospiti spesso sgraditi: sono i napoletani stessi, ovvero l’umanità intera. Copione di una forza inaudita che segna il debutto di Enzo Moscato come autore e interprete nel 1982, “Scannasurice”, proposto con successo presso la Sala Pasolini, vede all’opera un’Imma Villa, per la regia di Carlo Cerciello, che sa affascinare in ogni declinazione della tenerezza, della ferocia, del sarcasmo. Fin da questo testo, Moscato esprime in un linguaggio meticcio e raffinato ossessioni che innerveranno il suo percorso artistico: la mescolanza di sacro e profano, il confine perennemente labile tra vita e morte, le ferite mai sanate nel corpo di una città che si fa immagine del disturbante e della pienezza vitale, anche quando, per dirla con Lucano, le macerie stesse vanno in rovina. La scenografia è eloquente: un palazzo che sembra essere rimasto a stento in piedi dopo un bombardamento, privo di finestre, una struttura ridotta a scheletro tra miseria e immondizia. Il “bum, bum, bum” a cui allude la protagonista, un femminiello e dunque, nel suo essere al tempo stesso uomo e donna, emblema di ogni ambiguità, è associabile al terremoto, ma anche alla guerra, al degrado cui ogni violenza, in qualunque luogo e tempo, può giungere. Ecco perchè è citata “la solita fravec’ di San Pietro, ‘u scav’ ‘i Pompei”: tutto viene distrutto e tutto fa fatica a emergere da quella distruzione. Scannasurice è una sopravvissuta “sub specie Sibyllae”, una figura che si fa varco tra buio e luce e questo la rende una sorta di ponte tra ciò che è stato e ciò che è: i suoi racconti, che hanno del fiabesco, dell’esoterico e riflettono contemporaneamente malesseri e attese di ogni realtà, conducono in una Napoli sempre sospesa tra differenti livelli della percezione. La signorina Rosina, che, “quando l’utero era dritto”, faceva sentire il proprio canto fino a Via Medina (il suono, nel suo carattere allusivo, è fondamentale dove visibile e invisibile s’inseguono) e viene trovata morta, circondata da dodici topi, come se avessero voluto suicidarsi in perfetto accordo, racchiude nella propria pelle storie sempre diverse e sempre uguali di sfruttamento e desideri impudichi. Significativo che la casa della signorina diventi “un porto di mare nero”, dove si affollano gli africani: nuovi outsiders subentrano agli antichi. Scarafaggi e topi, considerati dalla nonna della protagonista ambasciatori della Bella ‘mbriana, ricordano che anche in quel che è considerato infimo si annida la bellezza dell’ineffabile, evocata da una filastrocca, non a caso forma prelogica di conoscenza. L’amore per Eduardo, inoltre, è presente nella predilezione di Scannasurice per uno studente, con una chiara eco di “Gennariniello”, mentre, nel racconto di Totore e Nannina, le atmosfere di “Questi fantasmi” sono ripensate nell’ottica del mistero, visto che “a casa è intonaco e divinità: guai a chi nun ce crer”. La coppia con la figlioletta va ad abitare in un immenso palazzo “spagnolesco”, dove la piccola passa dal pianto più disperato al riso più assurdo, finchè una voce (il munaciello? I defunti? Gli angeli?) esorta i genitori, dopo aver riempito di monete d’oro le fasce della bambina, ad abbandonare il palazzo, che crolla pochi istanti dopo la fuga dei tre e del numero civico non si avrà mai più traccia. In quel labirinto che è la vita, infatti, dove gli eccessi della gioia e del dolore possono coincidere, la vera fortuna si ottiene offrendo una possibilità a quella dimensione incategorizzabile che si annida ben oltre l’assodato e che non teme di abbattere quel che appare saldo. Le note della Bohéme e di Madame Butterfly, figure che hanno vivono nell’opera la sua stessa condizione di rifiuti della società, di attesa e di liberazione e salvazione nella morte, nella loro dolcezza struggente, esprimono un tenace desiderio di rinascita e di abbandono a una carne che sia finalmente rifugio e non segno di esclusione. In un simile contesto, appare naturale che gli abitanti di Napoli siano sorci, cioè creature che sopravvivono traendo energia dal basso e giocando con la sorte, di cui sono metafora i tarocchi appesi, ma la Vergine che progetta di sterminarli, versando curaro nell’acqua pubblica, pur essendo a sua volta protesa invano verso il sole, cioè la libera essenza del vivere, incarna il tentativo di razionalizzare, rinchiudere in uno schema prevedibile chi, con impudenza, non vuole essere addomesticato. La conclusione è tragica: Scannasurice si toglie la vita proprio bevendo al tubo dell’acqua avvelenata. Eppure, nulla muore davvero nella città di Moscato: troppi sogni attendono di essere sognati, nuove voci attendono solo di risvegliarsi dal buio più profondo.