Di Olga Chieffi
All’alba del 2 novembre 1975 veniva trovato, abbandonato nel vasto squallore dell’idroscalo di Ostia, un corpo esanime, “un sacco di stracci”, un uomo martoriato, con le ossa spezzate e il volto tumefatto quasi irriconoscibile. La testa fracassata dalle bastonate, il corpo straziato dalle ruote di un’automobile, un’espressione ferina di dolore a fulminare in un’ultima smorfia la sua faccia scarna. Così finiva di colpo la vita di Pier Paolo Pasolini, per mano di un ragazzetto di borgata minorenne, senza chiarimenti, senza definizioni, con quella stessa violenza barbara con cui, durante la vita, era stato attaccato sul piano giuridico, politico, ideologico e morale. Con quella testa fracassata in un’alba tra tante altre, veniva stroncata a 52 anni la vita di un uomo solo, in aperto conflitto con un’ Italia nata dal baratro del fascismo e viaggiante precipitosamente verso il baratro, ancora più grande dell’omologazione tecnocratica, del gangsterismo politico, delle morti annunciate. Tra queste morti annunciate, la morte improvvisa di Pasolini, casuale o meno che ne fosse l’occasione, suonava come l’epilogo oscuro e coerente del percorso conflittuale e contraddittorio della sua vita. Pasolini era reo di rappresentare, nell’Italia dell’ortodossia generalizzata, una categoria di persone messa al bando dallo strapotere dell’industria culturale: quella del “rifiuto”. Rifiuto della connivenza con una classe dirigente cortigiana e prepotentemente ottusa, rifiuto di scendere a patti con qualsiasi istituzione, tanto di “destra” quanto di “sinistra”, e rifiuto di abbassare la propria diversità culturale, morale e sessuale ad un’ennesima etichetta, al ghetto comodo della “scomodità” sociale in cui, una volta fagocitato dalla cultura borghese, si è cercato di relegarlo. Ma se Pasolini non ha mai nascosto la sua diversità, nel contempo non si è mai nascosto dietro di essa, non l’ha resa strumento di vendetta o di ricatto morale nei confronti di una società in cui non credeva. La chiarezza delle idee di quest’ “uomo in rivolta”, non è mai stata riducibile allo sposalizio di una causa definitiva: era questo che faceva paura. Pasolini non era controllabile, né condizionabile, e le mine vaganti, in questo Paese, sono state sempre fatte esplodere appena possibile. E che a colpire il corpo inerme del poeta, ci fosse Pino Pelosi detto “la rana”, quasi un personaggio dell’immaginario pasoliniano, non cambia nulla. Il delitto materiale è stato, in questo caso, un’appendice di quello perpetrato da schiere di detrattori, più o meno ben intenzionati per tutto il corso della sua vita. Per questo, a cinquanta anni dalla sua morte, parlare di Pasolini fa ancora male, perché al di là degli sforzi di specialisti o di amici, di cultori o di amatori, Pasolini resta un capitolo aperto della storia di questo Paese, dilacerante quanto le parole e le immagini con cui il poeta si è scagliato contro la vera morte, quella del silenzio, del taciuto, di ciò che non fa cronaca né storia. Stasera alle ore 20, e fino al 26 ottobre, per poi riprendere dal 28 al 1 novembre, alle 20 e il 2 novembre alle 18, con previsti i matinée per le scuole dal 28 al 31 ottobre alle ore 10, Claudio Di Palma, userà la parola “piena” abbagliante dell’arte per iniziare tutti al teatro e a Pasolini. “Solo Pasolini solo” è un monologo, prodotto dal Teatro Pubblico Campano, grazie alla visione di Alfredo Balsamo, che porterà gli spettatori nello spazio condiviso della Sala Pasolini, ove prenderà forma la notte di Ostia: il corpo di Pier Paolo Pasolini riaffiora, devastato, rivelato, inseguito, in quel cerchio che verrà formato dall’uditorio intorno all’attore Claudio Di Palma. Il pubblico respirerà la stessa solitudine del poeta. La scena diverrà spiaggia e memoria. Quel corpo “solo” continuerà a risuonare vivo… E la spiaggia, l’ultima, è, nello spettacolo, il luogo dove il corpo cerca una ricomposizione dopo lo scempio, ma dove risponde anche e ancora al suggestivo richiamo del rimbalzo di un pallone. Un corpo solo ed intorno il mare, le baracche del litorale ostiense del tempo, Casarsa della Delizia, gli studi televisivi che lo ospitano, il mondo pubblico o immaginario, in scena, incornicia la sua solitudine. Ma c’è vita ancora in quella solitudine. Bisogna essere molto forti per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune, bisogna avere coraggio, poiché l’arte ama il rischio. “Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo, basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali”. Così si esprimeva Pasolini, qualche ora prima della sua morte, nella sua ultima intervista, rilasciata a “Tuttolibri”. Su Pasolini, questi “beati omologatori” hanno scritto di tutto e male, come si fa per esorcizzare definitivamente qualcosa da dimenticare parlandone. Parlarne oggi, significa tentare di riannodare le fila di una lucida disperazione messa a tacere. Il tentativo può sembrare disperato, dal momento in cui quel fascismo omologante e tecnocratico contro cui il “sacco di stracci” dell’idroscalo è andato a infrangersi è lì, immutabile nella sua camaleonticità, giustamente fiero di una stravittoria innegabile. Parlare di Pasolini ora, attraverso i mezzi consentiti da questa provincia culturale, vuol dire, innegabilmente parodiarlo. Ma tra il rischio della parodia e l’agiografico silenzio a cui la carne viva del suo pensiero è stata ridotta, è preferibile accettare il rischio, come ci ha insegnato lui.





