Salerno. E’ già tempo di Stagione Lirica - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Salerno. E’ già tempo di Stagione Lirica

Salerno. E’ già tempo di Stagione Lirica

Di Olga Chieffi

 

E’ già toto-titoli per la nuova stagione lirica tra i corridoi del teatro Verdi e del conservatorio “G.Martucci”. Archiviato, forse, il centenario pucciniano, ci viene nuovamente da dire “O galantuomo come andò la caccia?”. Una rosa di titoli è già pronta per il cartellone lirico, per il quale sono all’opera i signori del Teatro Verdi, Daniel Oren, Antonio Marzullo e Rosalba Loiudice che prevedibilmente comincerà  intorno al 23 aprile. Incombono diversi anniversari quest’anno, da Dallapiccola a Bizet, da Ravel a Berio, ma speriamo vivamente che un deciso colpo di piatti possa tagliare il nastro del nuovo cartellone, quello dell’ouverture della Carmen di Georges Bizet, a 150 anni dalla scomparsa del compositore. Il prodigio “Carmen” inizia così, con un colpo di piatti, con cui Bizet per mezzo di un balzo folgorante e vertiginoso riesce a portarsi nel cuore delle cose, delle persone, delle situazioni, scrutandole fin nel profondo, forte di una percezione acuta fino allo spasimo, partecipe fino alla sofferenza. Ognuno può essere lo spettatore ed ognuno può diventare il fulcro della storia nel momento in cui il destino lo decide. Dovranno, poi, essere ripresi i due titoli esclusi dal cartellone scorso, Norma di Vincenzo Bellini, che avrà la voce di Gilda Fiume e Nabucco, l’opera cult della bacchetta di Daniel Oren, falciati dal gravissimo ritardo e dalla battaglia portata dalla regione Campania per i fondi di coesione negati. Norma è un personaggio che vive in modo rappresentativo lo scisma belliniano, in quanto l’esplosione della novella potenzialità lirica è chiamata a collaudarsi entro gli argini contegnosi d’una vera e propria ossatura vieux style e, per coinvolgere a pieno il pubblico, ha bisogno di rivivere in voci straordinarie e complete. Poche opere, infatti, nel paesaggio del nascente melodramma borghese riescono, al pari di questa, a registrare l’ossequio ad una formula e, insieme, il suo rovesciamento per il tramite della dilatazione melodica, del canto lunare fuoriuscente di continuo dalla morsa del tempo ordinario. Nabucco è un’opera che Daniel Oren “sente” con tutto se stesso e cerca di offrirne sempre una linea di lettura fortemente ritmata, esasperando i contrasti, in cui invita l’orchestra a seguire la parola. Nabucco è l’opera del “Va’, pensiero, sull’ ali dorate; va’, ti posa sui clivi, sui colli, ove olezzano tepide e molli l’aure dolci del suolo natal!”, il più famoso coro del melodramma italiano, col suo salto musicale di ottava su “ali”, come a spiccare idealmente il volo verso una libertà agognata, un diritto umano (“chi è libero di pensiero è già libero nello spirito” diceva un noto rivoluzionario), un coro semplice, ad una voce (…né poteva essere altrimenti), che tutti noi potremmo anche cantare insieme ai maestri. Immaginiamo che il nostro direttore artistico l’abbia scelto per il suo messaggio di libertà, liberazione che si ripercuote sui destini di entrambi i popoli che si fronteggiano. Folle vibranti di questo “popol di Giuda”, che grida, che impreca, che trepida per la propria sorte, che interpella i propri capi, Zaccaria e Ismaele, e dialoga con loro in una specie di gran comizio musicale. La coralità fluisce come una fiumana e impone alla musica norma e forma: c’è poco posto per i problemi di aria e recitativo, là dove l’espressione collettiva straripa e invade ogni angolo dell’opera, e la simulazione teatrale d’una liturgia recupera i valori antichi della musica sacra, iniettandogli il pungolo della tensione drammatica. In mezzo a questi grandi titoli,  una fiaba, l’ultima opera di Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflote. Ci eravamo lasciati male con questo capolavoro, qui a Salerno,  che divenne un improbabile pastiche. Stavolta, sarà meglio rimanere fedeli alla grande invenzione mozartiana, dalla ouverture e quel bussare tre volte alla porta, andando a principiare la grande cerimonia d’iniziazione musicale, per proseguire con le piroette del moro erotomane Monostato che prorompe con sincerità commovente, con la musica che lo contorna di un brillio fantasioso-leggendario che fa già pensare a Mendelssohn e Rossini. In alto, su di lui, aleggia Astrifiammante, con la voce che deve eseguire splendidi e virtuosistici esercizi al trapezio. Questo spirito aereo senza requie sarebbe portatrice di male, ma resta solo una madre potente e sconfitta alla quale hanno rapito la figlia Pamina che impalmerà l’ “iniziato” Tamino. La sua voce non fa altro che doppiare il glockenspiel di Papageno l’uomo bestia che s’intrufola tra i saggi, spinto dal desiderio d’amore profano come Monostato. Tutto nel Die Zauberflote ha un’origine comune, quasi radici e rami della stessa pianta che vedremo rappresentati sugli specchi in scena. Tutti trascinati dalla forza d’amore, che Sarastro e i suoi sacerdoti si adoperano di equilibrare fra amore concupiscente e benevolente. Le zone di pensosa solennità, o di nervosa accentazione drammatica che evocano le altezze di Bach e Handel, sono alle porte dell’iniziazione e confortano le parole del parsifaliano Sarastro. Pare che il Conservatorio “G.Martucci”, guidato da Fulvio Artiano, sia orientato per l’opera, che si ritaglia nel cartellone del teatro Verdi, verso la partitura più rappresentata di Nino Rota, “Il cappello di paglia di Firenze”, che festeggia l’ottantesimo dalla sua composizione. Ricordiamo la rappresentazione al massimo comunale nel 2004 per la regia di Francesco Torrigiani e la direzione di Giovanni Di Stefano. Tutto inizia per colpa di un cavallo di un promesso sposino, che mangia un cappello di una vivace cocotte. Il cappello non è che il motivo che apre la via ad un concatenarsi, preciso ed ineluttabile, di situazioni entro le quale si agitano dei personaggi impeccabilmente disegnati in chiave gustosamente umoristica. La “premessa tradizionale” è qui l’opera del Settecento e dell’Ottocento, che Rota rilegge e reinterpreta con uno sguardo nuovo e luminoso, facendo anche tesoro dell’esperienza maturata in ambito cinematografico. In particolare, la caratterizzazione quasi stereotipata dei personaggi viene sfruttata dal compositore per creare un affresco gioioso e ironico della storia dell’opera, citando tramite i diversi personaggi vari stili da Mozart, a Rossini a Donizetti. Non per ultima, dopo il felice “atterraggio” di Elvira sul palcoscenico del Verdi, potrebbe essere il turno di Donna Fiorilla. Sicuramente una delle opere di Gioachino Rossini, più amate dal pubblico è sempre stata l’Italiana in Algeri, ma il Turco in Italia, pur si potrà pur trovare qualche analogia nella trama, la musica è quasi del tutto diversa. Sicuramente un’opera d’assieme, dove le arie solistiche giocano una parte importante solamente nel ruolo di Fiorilla. Quello che attrae di più di questi ensembles è certamente il moto frenetico, ma i momenti al loro interno di straordinaria bellezza e sensitività.