Salvatore Marrazzo
Di recente la comunità di Mercato S. Severino ha perso due persone chiare e luminose. Entrambe con una personalità sobria e raccolta. Il monsignor Vincenzo Romano e il professor Lucio Sessa. Due persone di sicura fede e laicità. Due persone minime ma possenti. Soltanto la casualità di una cultura sacra e teoretica mi ha permesso di incontrarle e di avvicinarle nella loro autorevole sapienza. Elevata, qualificata, stimata, perché autentica nel senso e nella significatività di un cammino verso la comprensione, la competenza e la generosità. Sebbene, solo in apparenza, abbiano percorso strade diverse, sono stati accomunati da una tensione verso il prossimo, verso l’altro, verso il vicino. Erano due persone pure, semplici, di una cultura estesa e meditata, pratica nell’essere prossima a una humanitas dell’uomo essenziale e non a una voce urlata e predominante. Una voce fragile la loro, ma per chi ha saputo mettersi in ascolto, una voce imponente e profonda. Nessuna evanescenza, ma un senso antico calato in una storicità poco attenta a quei valori originari che fanno dell’uomo l’Uomo. Qui la maiuscola è un’attenzione che mi è apparsa di riscontrare nel loro pensiero come nel loro agire, e in direzione di una domanda sempre inquieta e calma, e costantemente rivolta: chi è l’uomo? Un giusto interrogare, quindi, ma anche un irreprensibile ritrarsi nel silenzio. Dove conduce il domandare se non verso quella regione della reticenza e del mistero? Una parola va sempre ascoltata, ma una voce guadagna dignità nel suo ritrarsi, nella sua compostezza. C’è un abisso, scrive un filosofo a me caro, tra il filosofare sul naufragio e un pensiero che naufraga. Non sarebbe un male se mai un pensiero del genere riuscisse a un uomo. Gli sarebbe fatto l’unico dono che possa venire al pensiero da parte dell’essere. Ecco, a questo dono dell’Essere, si partecipa con la cura e la disposizione giusta che solo un’abnegazione al pensiero e alla fede può riconoscere come tale. Tra pensiero e fede c’è differenza dottrinale non esistenziale. Sia il monsignor Vincenzo Romano sia il professor Lucio Sessa sono stati esemplari nel saper coniugare il loro credo con una vita condotta nel più irreprensibile dei modi. Rammemorare significa ridare presenza, restituire due sostanziali figure non al ricordo, ma all’impronta edificante, educativa e confortante che hanno incessantemente promosso. Le fugaci quanto profonde chiacchierate con il monsignor Romano hanno lasciato in me riflessioni, raccoglimenti, turbamenti che sono ancora in corso. Per questo, non smetterò mai di esprimere gratitudine. Per quanto riguarda Lucio, amico dai tempi universitari, il discorso è diverso. Qui le parole si ritirano, si allontanano per essere più prossime alla sua sensibilità di letterato e filosofo. Lui che aveva amato Miguel de Cervantes, Jorge Louis Borges, Ernesto Sabato, lui che aveva tradotto Nicolás Gómez Dávila, uno tra i più grandi intellettuali sudamericani, non avrebbe voluto nessuna parola enfatizzata, aumentata, accentuata, ma lui era lui, e sono sicuro che si sia riconosciuto in queste righe di Gédéon Tallemant des Réaux che riporto e che senz’altro Lucio avrà letto. “Malherb non era del tutto persuaso che ci fosse un’altra vita, e quando gli parlavano dell’inferno o del paradiso, diceva: ho vissuto come gli altri, voglio morire come gli altri e andare dove vanno gli altri”. Lucio non avrebbe gradito altre parole, probabilmente, queste sono già superflue, ma non ho potuto esimermi da un’affezione. Non ci si separa facilmente da un intellettuale di grande rango con cui tenevo un dialogo sempre aperto e vivo. Mi piace, allora, ricordarle così, queste due figure, come il filosofo e il teologo. E sperare, in tal modo, si possa continuare con loro un dialogo che non debba mai finire. Forse, l’eterno è anche questo smarrimento. Rammemorare la morte come una sorpresa e mai come una minaccia.





