di Erika Noschese
Una storia di presunta discriminazione e abbandono emerge dall’ospedale “Ruggi” di Salerno, dove Luana de Moraes, una donna transessuale attualmente ricoverata in attesa di iniziare la cura per la tubercolosi, denuncia trattamenti disumani e una palese disparità rispetto ad altri pazienti. La testimonianza di Luana, raccolta in esclusiva, dipinge un quadro allarmante di negligenza e pregiudizio all’interno di una struttura che dovrebbe garantire cura e assistenza a tutti, indistintamente. Luana racconta un’esperienza “terrificante” sin dal suo arrivo al pronto soccorso, un luogo che avrebbe dovuto rappresentare il primo passo verso la guarigione, ma che si è rivelato un banco di prova per la sua dignità. “È stato terrificante perché comunque, nonostante tutto, mi sono sentita proprio abbandonata. Per diverse volte mi hanno lasciata senza cibo. E non è che venivano a domandarmi se avessi bisogno di qualcosa”, dichiara Luana, con la voce rotta dall’imbarazzo, dalla vergogna, dal dolore, dalla rabbia. Il suo racconto evidenzia una chiara percezione di essere stata trattata diversamente dagli altri. “Ho capito benissimo che il trattamento così era soltanto con me, perché c’era un signore affianco a me che riceveva sempre tutte le attenzioni necessarie”, aggiunge, sottolineando la disparità di cure ricevute. Questa sensazione di essere stata deliberatamente ignorata e trattata diversamente dagli altri pazienti è il filo conduttore della sua denuncia, un’accusa pesante nei confronti di chi dovrebbe garantire equità nel trattamento sanitario. La situazione è diventata così insostenibile che Luana si è trovata costretta a chiedere aiuto all’esterno, un segnale evidente del fallimento delle procedure interne. “Ieri sera succede che un mio amico è venuto a portarmi un panino, perché non ce la facevo più, avevo tanta fame, giuro su Dio”, racconta. Un gesto semplice, di pura umanità, che però ha avuto conseguenze inaspettate. “E per questo semplice gesto di umanità, la gente sta cercando di punirlo”, aggiunge Luana, facendo riferimento al dipendente dell’ospedale che, in precedenza, era riuscito ad aiutarla nonostante risultasse in malattia. Per l’uomo, in malattia a causa di una operazione, il rischio concreto di un provvedimento disciplinare. La sofferenza di Luana è palpabile e culmina in un grido di dolore: “Mi sono sentita veramente una merda! Non capisco perché tanta crudeltà, siamo esseri umani come tutti! Ribadisco, non generalizzo a tutti quanti però. Ma la maggior parte, purtroppo, non si sono comportati da professionisti”. Le sue parole non sono un’accusa indiscriminata, ma un’amara constatazione del comportamento di parte del personale. Luana sottolinea con forza la gravità della sua condizione di salute, una circostanza che avrebbe dovuto imporre un livello di attenzione ben più elevato da parte del personale medico e infermieristico. “Perché alla fine non stavo lì per una semplice febbre. Sì, per una riattivazione della tubercolosi, quindi avrebbero dovuto prestare molto più attenzione alle mie condizioni”, ribadisce con determinazione. La sua necessità di cure specifiche e la maggiore vulnerabilità avrebbero dovuto tradursi in una premura maggiore, non in un trattamento che si è tradotto in abbandono e negligenza. La consapevolezza della sua patologia infettiva, peraltro, avrebbe dovuto spingere il personale a un’attenzione ancora più scrupolosa, sia per la sua salute che per quella degli altri. Attualmente, Luana si trova ricoverata in reparto. “Sono sempre in ospedale. Però l’episodio è successo nel pronto soccorso”, precisa, evidenziando che le difficoltà maggiori si sono concentrate nel momento più delicato del suo ingresso in struttura. Alla domanda su quando si è recata in pronto soccorso, risponde senza esitazione: “Da lunedì”. Nonostante fosse stata visitata (“Quello sì!”, ammette con senso di giustizia), il problema del cibo e delle bevande è persistito in modo frustrante. “Ha chiesto come mai non le avessero portato da mangiare?”, oso chiederle. “Per diverse volte, ahahahah,” risponde Luana con un sorriso amaro, un misto di rassegnazione e incredulità, ricordando le risposte evasive ricevute: “Mi dicevano ‘prescrivo’. Oppure ‘mo segnalo’. E alla fine, vabbè…” Queste promesse mai mantenute hanno alimentato la sua sensazione di essere stata ignorata e che le sue necessità primarie non fossero prese sul serio. Luana è ora in reparto, “pronta per fare la cura”, un passo importante verso la guarigione, anche se non sa ancora per quanto tempo dovrà restare nel reparto del “Ruggi”. La durata della sua degenza è incerta, ma la priorità per Luana resta la sua salute e, soprattutto, la speranza che simili episodi di discriminazione e negligenza non si ripetano, né per lei né per nessun altro. La sua denuncia non è solo un grido di dolore personale, ma un richiamo all’attenzione sulle condizioni di accoglienza e cura all’interno di una struttura sanitaria pubblica. La storia di Luana de Moraes getta una luce inquietante sulle presunte violazioni dei diritti fondamentali e della dignità di ogni paziente, indipendentemente dalla propria identità o condizione sociale. È un appello alle istituzioni e alla coscienza collettiva affinché simili trattamenti non trovino più spazio nelle nostre strutture sanitarie.





