di Andrea Manzi
Rileggo con gusto, in questi uggiosi pomeriggi d’inverno, il denso libro “Prima della fine” dello scrittore argentino Ernesto Sabato, scomparso il 30 aprile di tredici anni fa, cinquantacinque giorni prima del suo centesimo compleanno. Sabato è stato uno degli ultimi grandi umanisti, e ancora mi emoziona quel pomeriggio gelido del 1985 trascorso con lui a Buenos Aires a conversare di desaperecidos, nonché di realtà e finzione del romanzo. Io ero lì, poco più che venticinquenne, inviato del Mattino, il giornale presso il quale lavoravo già da alcuni anni.
La crisi epocale dell’uomo era il suo cruccio ed egli ne dipanava l’afflizione provando a raccontare il futuro possibile dell’umanità con la puntualità della cronaca, descrivendone le prospettive prossime venture con una inventiva lieve.
Scriveva di quella regione chiamata anima nella quale si mescolano idee e sangue.
L’anima non era per lui lo spirito, ma un’area lacerata nella quale l’esistenza si rivela e dove accade di tutto. Lì mai nessuno potrà fingere, ciascuno è solo con i propri abissi e le impetuose inespresse rivolte di cui è capace. L’abbandono di questa zona sintomatica e la tentazione di razionalizzare ogni cosa disumanizzano il mondo, mi disse Sabato, e lo affermò con voce sofferta, sezionando il discorso con pause metafisiche.
Nessuno saprà mai se un autore così intenso e trascurato avesse ragione, se valga la pena ancora oggi di ripercorrere aree ambigue per capire qualcosa di noi.
Forse questo sforzo non servirebbe a nulla, perché il problema non è più quello di cogliere la coincidenza o la distanza tra la nostra condizione e la realtà della vita (o del romanzo).
Il tema, piuttosto, è la storia.
Gli uomini rischiano di subirla, di soccombervi.
E accade ogni giorno di soffrire per l’inconveniente di essere nati dentro un tempo clamorosamente vuoto.
Sabato ne aveva viste tante a causa della sua longevità e ripeteva che nelle difficoltà ci siamo salvati sempre grazie alla parte più debole dell’umanità.
Era un barlume per orientare una prospettiva. Perché questa convinzione? La parte debole dell’umanità è la più disponibile a credere che l’opposto dell’impossibile non sia il possibile ma il vero.
Tante utopie sono diventate realtà future.
Le realtà vanno però costruite con l’orgoglio della testimonianza. E l’impossibilità contemporanea di farlo deriva da una cultura emergenziale che travolge ogni libertà di autodeterminarsi e, di conseguenza, sospende la storia. Da Monti alla Ue, alla Bce, a Enrico Letta, alla finitudine del renzismo, al melonismo d’antan, alla sinistra sdrucita e ormai balbettante, tutte esperienze con vista sull’abisso, è stato ed è tuttora un susseguirsi di bandiere issate sul luogo comune di un timore che ormai regge e legifera.
Un tempo era l’informazione ad opporsi ai luoghi comuni, fu il grande giornalismo civile a sovvertire il pensiero pigro, l’attenzione tele-vedente.
Non è più così. Piero Ostellino riteneva, già qualche decennio fa, che le nuove leve del giornalismo “hanno capito, leggendo le firme più prestigiose, che il segreto per far carriera è riempire due colonne senza dir niente”.
A questo punto, troviamo noi, ciascuno di noi, le parole per raccontare la rabbia che ci opprime.
La carica democratica (sconosciuta e, quindi, apparentemente eversiva) risiede non nelle gesta spettacolari degli ineffabili grillini o degli indomiti salvinisti o ancora negli aerei vaniloqui progressisti ma nelle nostre discussioni quotidiane e, magari, nelle schegge informative che, in libertà, ne sappiano prolungare l’eco.
Risiede, quella carica, nella disponibilità a raccogliere e trasmettere in contemporanea, (ri)dire agli altri la nostra testimonianza con la stessa rapidità con la quale la raccontiamo a noi stessi, nell’intimità del silenzio.
È l’area intermedia della nostra coscienza che va recuperata e mediatizzata. Forse quell’anima che Sabato vide tramontare sotto il cielo di Buenos Aires?
Chissà.
Una cosa è certa, le rivoluzioni possono nascere per gioco oltre che per fede. E il gioco nasconde, a volte, il cruccio umanistico di voler cogliere le mescolanze estreme, il senso della storia nell’attuale deserto di noia.
Talvolta accade, anche in Italia e, perché no, soprattutto nel nostro Sud, che nasca la voglia di partecipare, di riscoprire l’anima.
Sugli esiti conseguiti finora sospendiamo, per pudore, il giudizio. L’importante è che la virtualità incroci l’atto, e tanto basterà per poter rilevare una fenomenologia non soltanto mediatica ma anche politica. Se dovesse accadere, significherà che è possibile penetrare anche con la letteratura e con il giornalismo la penombra meridionale, nella quale risiede la nostra storia e il nostro progresso.
Non sarà facile, ma è utile tentare per non dover dire a noi stessi un giorno, fosse anche l’ultimo della vita, di aver fallito in ossequio allo scoraggiamento.