Occupati. Cosa c’è dietro ai record. Un grande bluff - Le Cronache Attualità
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Occupati. Cosa c’è dietro ai record. Un grande bluff

Occupati. Cosa c’è dietro  ai record. Un grande bluff

Aldo Primicerio

 

Un milione di posti di lavoro in più. E, per la prima volta, più di 24 milioni di occupati nel 2024. Alcuni numeri sono attendibili e credibili. Un po’ meno gli entusiasmi del governo, ed anche le critiche dell’opposizione. Il “cambio di rotta”  e l’”inversione di tendenza”, o il “Paese che cresce”, i luoghi comuni sbandierati il 1° maggio dalla Meloni – che non è una premier ma il presidente del consiglio dei ministri – sono esagerazioni. Anzi dei falsi. Chi ha la pazienza di leggere con attenzione i dati Istat, rileverà che l’aumento del numero degli occupati è iniziato prima che s’insediasse il governo Meloni, esattamente con la ripresa successiva alla pandemia. Analogo discorso per i disoccupati. Il calo è iniziato prima che il nuovo governo entrasse in carica. La ministra del turismo Santanché, se ci riesce, deve quindi imparare a leggere i numeri prima di parlare, plasticamente, in pubblico. Ma lo sappiamo bene.  E’ un errore tipico dei politici elogiare un singolo intervento di politica economica, senza considerare in quale contesto esso è maturato.

 

Occupazione, quale record effettivo? E dove, fra chi? Facciamo i conti con l’andamento demografico

Partiamo dall’inizio. Dunque siamo a quota 24mln300mila. Molto bene, e complimenti. Perhé sono numeri mai registrati prima. Ma se infiliamo la testa nel calderone e guardiamo bene, si scopre che per il 90 per cento sono lavoratori over 50. Che significa? Che ci sono sì più occupati, ma anche una maggiore permanenza di persone al lavoro. Meloni, Salvini, Tajani e Giorgetti devono dire grazie ad Elsa Fornero. Ce la ricordiamo? Fu il ministro del lavoro nel famigerato governo Monti dal 2011 al 2013. Prima si andava in pensione a 62 anni, poi a 65, a 66, a 67 anni. Insomma, ora ci sono più permanenze che uscite sul mercato del lavoro. Ed allora, Giorgia, Matteo, Antonio e Giancarlo: le carte, i numeri sapete approfondirli, quando ve li somministra qualche facilone dei vostri collaboratori? Forse ve li leggete, ma volete coglierne gli aspetti che più vi convengono.  I nuovi ingressi al lavoro ci sono, certo, ma sono di più quelli che vi restano a lungo. Perché, dopo tanto parlare, insistere, leggere, ascoltare dai media, il lavoratore dipendente ora ci pensa più di una volta, ed alla fine si convince che andare in pensione il prima possibile è un danno al fisico ed allo spirito, ed allora decide di fermarsi. E’ questa la società di oggi. Occorre fare i conti con l’andamento demografico, con la riduzione delle nascite per compensare i salari che in Italia sono tra i più bassi in Europa. E quindi con il calo, anzi il crollo della popolazione giovane, con un sempre minor numero di persone che entrano nel mercato, ed un numero sempre maggior che permane, più di quanto accadeva 10-20 anni fa. Anche il tasso di occipazione è eloquente. E’ del 62,2 per cento, quello femminile al 53,3, quello giovanile (15-24 anni) al 44,9 per cento. Migliora sì, ma è tra più bassi in Europa, con marcate disparità di genere e tra regioni. Lo dice anche Eurostat.

 

Le incertezze del futuro, la precarietà e scarsa qualità dell’occupazione, la caduta dei salari, l’inflazione, gli inattivi

Dove lavorano tutti questi italiani di cui si gonfia il petto il trio dei fratelli, dei leghisti e degli azzurri d’Italia? Non certo nel settore manifatturiero e della trasformazione, che è il vero motore dello sviluppo, dell’economia e del Pil. E’ invece quello dei servizi e del commercio, dove l’occupazione è notoriamente precaria, discontinua, di scarsa intensità. Queste caratteristiche si traducono in salari bassi. Il nuovo lavoro, di cui si gonfia il petto Giorgia, è quindi per lo più precario e con compensi poco dignitosi. Secondo il rapporto della Fondazione Di Vittorio della  Cgil, più del 90 per cento dell’incremento complessivo degli occupati è imputabile al settore dei servizi, dove i contratti a termine e part time riguardano quasi il 30 per cento e colpiscono in modo particolare i giovani, le donne e i laureati. Ed alla precarietà del lavoro  è connessa la stasi e la caduta dei salari. Negli ultimi 15 anni i salari reali medi in Italia sono diminuiti del 9 per cento, in Germania e Francia sono cresciuti del 14 e del 5 per cento. Secondo il rapporto Ocse Taxing Wages, il Belpaese si colloca al 23esimo posto sui 38 dell’organizzazione per salari netti. E non è certo questo il “Paese che cresce”.  E, secondo Eurostat, da noi quasi 2 lavoratori su 10 sono a rischio povertà. Anche per le retribuzioni contrattuali. Secondo Istat, seppure in aumento a marzo 2025 rispetto a marzo 2024, sono sempre inferiori dell’8 per cento rispetto a marzo 2021. Questo cosa significa? Che sul potere d’acquisto e sui salari pesa ancora l’inflazione cumulata tra il 2021 e il 2024. Nei quattro anni i prezzi sono cresciuti complessivamente del più 18,6 per cento, mentre le retribuzioni sono rimaste al palo. Lo stesso presidente della Repubblica Mattarella l’1 maggio scorso dichiarò: “Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita. I salari insufficienti sono una grande questione italiana”. Un ultimo dato negativo è rappresentato dagli inattivi. A dicembre 2024 erano 12 milioni 400 mila, risultano in salita a febbraio 2025. Il tasso generale è al 33,4 per cento, e anche in questo caso dentro si trovano le disuguaglianze del mercato del lavoro: donne, giovani, Mezzogiorno.

 

Sono i Neet, i giovani che non lavorano, non studiano e non si formano

Sono chiamati NEET, un acronimo inglese che sta per “Not in Education, Employment or Training”. In italiano, potremmo tradurlo come “Non in educazione, occupazione o formazione”. Questo termine identifica i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono impegnati in nessuna di queste attività. Sono in calo, certo. L’incidenza dei Neet tra i 15-34enni è diminuita dal 24,6 al 18% tra il 2018 e il 2023. La cattiva notizia è che questi dati, nonostante il calo, inchiodano comunque l’Italia al terzo posto in Europa per percentuale di Neet, dietro soltanto a Grecia e Romania. E’ un esercito di 2 milioni di giovani. La cattiva notizia è che solo 700 mila di questi sono disoccupati, cioè persone che attivamente cercano lavoro ma non lo trovano, mentre 1,4 milioni hanno proprio smesso di cercarlo. In questo numero – scrivono il lavorista Tiraboschi ed il presudente di Adapt Seghezzi – è racchiuso un disagio profondo, che incentivi economici o flessibilità normative concesse alle imprese non possono da soli risolvere. L’altra brutta notizia è che il calo dei Neet non dipende affatto dalle sbandierate politiche occupazionali del Governo, ma dalla ripresa dell’economia e del mercato del lavoro che preferiscono i più giovani. E’ un dramma che ci rattrista molto. Mi capita spesso di incontrare amici e conoscenti, con i quali ci si saluta, si parla del più e del meno, della famiglia, e poi dei figli. Dove il discorso cade, c’è una pausa, il silenzio, una difficoltà, ma soprattutto la tendenza da genitori a minimizzare, quasi mettere in un angolo lo status di figli che non lavorano, non studiano e non si formano. Un qualcosa che poi si vedrà, ma cui sembriamo già rassegnati.  Cari Giorgia, Matteo ed Antonio, è anche questa l’Italia, quella di fronte alla quale vi girate dall’altra parte, e che alla fine vi fa essere un pò bugiardi ed ipocriti. Questo è il Governo che ci governa.