di Erika Noschese
Da anni si legge, sempre con maggiore frequenza, di una sanità al collasso. I motivi sono i più disparati: logistici, strutturali, gestionali, numerici, organizzativi. Ogni aspetto presenta criticità importanti che non passano inosservate, sia al cittadino sia agli operatori del settore, costantemente con i riflettori puntati addosso. Secondo Attilio Maurano, vicepresidente dell’Ordine dei medici chirurghi ed odontoiatri della provincia di Salerno, già direttore della Uoc di endoscopia digestiva, esperto in chirurgia d’urgenza, chirurgia vascolare e medicina dello sport, i problemi sono tanti e le soluzioni non sono facilmente riscontrabili. Ci sono tante criticità, oggi, per quanto riguarda la provincia di Salerno: secondo lei qual è la priorità, la base di ripartenza? «La conoscenza della situazione non significa, poi, conoscere anche tutte le risposte: sarebbe bellissimo poter avere una bacchetta magica a far funzionare la nostra sanità come quella dei Paesi più evoluti rispetto al nostro. Ci sono una serie di criticità che partono dalla formazione dei medici, dal numero dei medici che sono attualmente nella catena assistenziale; quindi, problemi che hanno anche radici storiche, perché il fatto che oggi ci siano 50.000 medici in Italia che vanno in pensione e non ci sono pronti i sostituti per 50.000 medici è una grossa criticità, perché l’assistenza sanitaria non si può fare senza il medico. Sono importantissime tutte le altre figure: dall’infermiere, all’ausiliario, ai tecnici di laboratorio fino ai radiologi, ma il medico ha una funzione importante. Quindi abbiamo medici sempre più anziani, sempre di meno medici nei pronti soccorso, sempre più sovraccarichi di lavoro». E le ore di lavoro, intanto, così come il numero di pazienti da assistere, aumentano. «Il fatto che aumentino le quote capitarie o che aumentano le ore in cui le persone devono lavorare peggiora il sistema, perché un medico che deve assistere 1000 persone ha un carico di lavoro, se lo stesso medico deve assistere 2000 persone ne ha il doppio. Così in ospedale: se devo fare 40 ore settimanali di assistenza, riesco ancora a sopravvivere. Ma se io devo farne 60-70, a prescindere da quanto mi pagano, sono sempre io che mi espongo a un ritmo di lavoro che alla fine mi distrugge». I Pronti Soccorso oggi vivono una situazione abbastanza critica: sempre più spesso pazienti in attesa per diverse ore. Banalmente, si registrano carenze anche per gli strumenti essenziali, come le barelle o ultimi casi le sedie. Cosa sta accadendo? «Sta accadendo che anche su questo la programmazione, purtroppo, non è stata efficace. Ci sono diversi tipi di problemi: anzitutto, il territorio è sguarnito da tutti quei sistemi che possono impedire di arrivare al pronto soccorso dell’ospedale. Il paziente in codice verde o in codici più leggeri, che non ha dunque bisogno del Pronto soccorso vero e proprio, va quindi a ingolfarlo. Nel pronto soccorso mancano gli specialisti del sistema di emergenza: le facoltà mediche non riescono a produrre le persone che vogliano fare medicina d’urgenza o chirurgia d’urgenza. I giovani non ci vanno e non ci vanno per un doppio motivo: anzitutto, perché in pronto soccorso si rischia. Si rischia fisicamente di essere picchiati, di essere minacciati, si rischiano le denunce e l’Italia è uno dei pochi paesi che ha ancora il sistema delle denunce personali al medico e non al sistema, quindi denunce penali, non denunce di tipo civile. A tutto ciò si unisce il fatto che un medico di pronto soccorso, se fa solo le sue ore, è sottopagato rispetto ad altre categorie. L’insieme del tutto fa sì che questi giovani, soprattutto quando sono bravi, non vadano a lavorare in pronto soccorso, ma scelgano di andare a lavorare privatamente dove guadagnano due o tre volte quello che prenderebbero in pronto soccorso. Fermo restando che poi il medico italiano, rispetto ai medici degli altri Paesi europei, guadagna uno stipendio di tre, quattro volte minore rispetto agli altri. Io non sto dicendo che i medici dipendono da un fattore economico, ma sto dicendo che non esiste un sistema premiante per chi va a lavorare sulla criticità che gli dia almeno una soddisfazione di questo tipo». Oggi si parla di medicina di prossimità, di nuove strutture che potrebbero alleggerire i pronti soccorso. Possono essere la soluzione? «Sì, secondo me potrebbero essere, se non la soluzione complessiva, quantomeno un enorme supporto al sistema di assistenza sanitaria: gli ospedali di comunità, le case di prossimità, l’azione del medico che si espande per più ore durante la giornata e che quindi costituisce un grosso filtro, nell’insieme costituiscono un enorme supporto per tutte quelle patologie che non hanno bisogno di essere trattate nell’immediatezza. Quelle più urgenti vengono salvaguardate con l’assistenza tipo ospedaliero, tutte le altre possono trovare risposta in questa fase intermedia». Oggi i giovani vanno via dalle strutture sanitarie, vanno via anche dalla dal sud, dal Mezzogiorno e dall’Italia. Secondo lei perché, dal punto di vista sanitario, la nostra regione non è attrattiva? «Non è solo la nostra regione che non è attrattiva. Io ho svolto nella mia attività la funzione di responsabile formazione e informazione di uno dei sindacati nazionali firmatari del contratto. Le posso assicurare che almeno tutte le regioni del sud hanno effettivamente questo problema, ma molti colleghi anche del nord vanno via e non solo. Poi i giovanissimi, proprio quelli più preparati vengono attratti da Paesi: per esempio, dai paesi arabi. Se una persona va a lavorare una volta a settimana in un Paese arabo, guadagna cinque volte lo stipendio italiano. C’è chi dice: “Ma devi andare in Arabia”. Sì. Però sinceramente uno stipendio cinque volte maggiore è un attrattore per lasciare la struttura pubblica e andare a lavorare nel privato. Un medico che lavora in Belgio, in Francia, guadagna quattro volte quello che guadagna in Italia: a Bruxelles ho conosciuto una pediatra calabrese che lavora lì, guadagna circa 8mila euro al mese facendo quello che fa un nostro pediatra qui in Italia; quindi, uno stipendio due volte maggiore di quello che è il pediatra di base o anche tre, quattro, cinque volte di più di un pediatra ospedaliero». Ci sono strutture in provincia di Salerno a chiuse o a rischio chiusura, tanti punti nascita che oggi hanno perso la loro funzione, le aree interne che oggi vivono una carenza importante, zone dove c’è anche il terrore forse di accusare un malore. L’ultima tragedia a Capodanno a San Mauro Cilento. «In una qualsiasi società civile queste cose non dovrebbero succedere: il sistema delle che deve garantire l’emergenza deve essere organizzato in maniera che almeno questo non manchi. Riguardo i punti nascita, c’è una norma generale per tutte le aree. Forse si sarebbero dovute prevedere delle eccezioni per le aree interne, in cui si prevede che ci sia un numero minimo di nati all’anno, altrimenti quei punti vanno chiusi. Ma non per antipatia: oggi, per la diminuzione delle risorse economiche a disposizione del sistema, bisogna pensare che ci deve essere l’appropriatezza organizzativa. Non si può pensare che tutti abbiano tutto e sul posto in cui stanno, cioè che non tutti gli ospedali devono essere specializzati su tutte le cose, perché non è questa la mission dell’ospedale. Per esempio, si dovrebbe distinguere tra ospedale ASL e ospedale Azienda ospedaliera universitaria per la mission, per le prestazioni che vanno erogate. Il problema è che non devono essere in concorrenza tra di loro, come invece si tende a fare. Bisogna dare a ognuno degli ospedali dei compiti specifici, facendo sì che gli ospedali dell’azienda sanitaria e quelli dell’azienda ospedaliera siano in una rete di efficienza».





