di Vito Pinto
Sessant’anni fa, l’8 marzo del 1964, durante i lavori di scavo archeologico nel sito dell’antica città di Elea, veniva portata alla luce la “Porta Rosa”, così chiamata per un omaggio che il suo scopritore, il troppo presto dimenticato Mario Napoli, volle tributare alla moglie Rosa, “nome inciso in eterno nella pietra della splendida Porta”. Risalente al IV sec. a.C. la struttura della “porta” costituisce, sinora, il più antico esempio di arco a tutto sesto. Una scoperta di particolare importanza che Napoli, allora Sovrintendente Archeologico di Salerno, portò alla luce nel corso dei suoi scavi mirati alla ricerca dell’antica città della Magna Grecia, dove nacque e si alimentò il pensiero di Parmenide e Zenone. «Là dove “si trova la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, in una piccola città nel golfo di Salerno chiamata Hyele, cinque secoli prima di Cristo si poteva “scorgere una figura che non era persona, ma pensiero di un uomo” assorto nel suo Poema “Peri Physeos” (Sulla Natura). In quella città Parmenide viveva i suoi giorni meditando circa l’Essere ed il non Essere, dando inizio, come affermava Hegel secoli dopo, alla vera filosofia, “dove l’uomo si libera dalle rappresentazioni sensibili e dalle inquietudini”». Per l’archeologo Napoli, che della topografia aveva fatto uno dei cardini dell’archeologia, in quel luogo era un “camminare tra il quartiere meridionale e l’acropoli, sul crinale della collina alla scoperta del primo insediamento foceo, il cosiddetto Villaggio in poligonale”. Quando i lavori di scavo furono terminati si poté accertare che quella non era una porta, ma un viadotto costruito per superare una stretta gola naturale presente lungo il crinale dell’Acropoli e che metteva in comunicazione quel sito con le fortificazioni difensive costruite nel territorio interno di Castelluccio. Il compito di interrompere, all’occorrenza, la comunicazione tra i due quartieri era invece affidato ad una preesistente struttura architettonica, venuta alla luce pochi metri più a Sud, denominata “Porta arcaica”. Alla guida della Sovrintendenza Archeologica di Salerno, Mario Napoli diede un notevole impulso alla conoscenza della storia della Magna Grecia. Le sue scoperte permisero di conoscere una città, Hyele, che era cresciuta non solo per pensiero, per leggi e per commerci, ma anche per disegnato costrutto urbano. Con il suo lavoro di scavo, Mario Napoli ne disegnò il volto topografico, portandone alla luce il quartiere meridionale, il quartiere portuale e tratti delle notevoli fortificazioni, del centro abitato e dell’acropoli. In quella città fondata dai Focei, “nell’epoca della sessantesima olimpiade”, sorgevano ordinate addizioni di case, su terrazze servite da un’unica strada che conduceva diretta al porto ed altre di scambio. Sorse in Tempio a Minerva e il teatro su cui si muovevano attori in syrma, maschera e coturno. Nella parte bassa era l’area porticata con le infinte botteghe pullulanti di quei tanti mercanti che da ogni parte del Mediterraneo attraccavano nel suo porto. Vennero allestite terme e mura a difesa, sulle quali si aprivano Porta Arcaica e Porta Marina sud. Ma chi era Mario Napoli, che vide la luce nella città di Partenope e a Salerno raggiunse prematuramente il tempo senza tempo? Nato nel 1915 è stato uno dei massimi archeologi del secolo scorso e le sue scoperte hanno segnato l’archeologia del Novecento. Gli studi su Partenope greco-romana, la scoperta di Elea e della Tomba del Tuffatore nella necropoli di Tempa del Prete a Paestum, oltre l’intensa attività sul territorio della Campania e il particolare interesse per le attività museali, ne hanno fatto figura di riferimento per generazioni di studiosi. Con un’espressione ormai desueta ma calzante nei suoi riguardi, ben può dirsi che Mario Napoli fu intellettuale a tutto tondo, capace di congiungere la sua conoscenza scientifica di archeologo a una sensibilità culturale che l’ha portato a contatto con pittori, poeti e artisti di primo piano. Non a caso Giorgio Bassani per lui scriveva: «Non lasciarmi solo a scavare nella mia città a resuscitare / grado a grado alla luce / ciò che a lei sta sepolto là sotto il duro / spessore di ventimila e più giorni». Sottotenente dell’esercito durante la seconda guerra mondiale, fu catturato dagli Inglesi dopo El Alamein, trascorrendo due anni di prigionia in Sud Africa. Dopo la guerra rischiò di non poter partecipare al concorso nelle Soprintendenze non potendo dimostrare di aver effettuato il servizio militare: le bombe avevano distrutto l’archivio del Distretto Militare di Napoli. Venne in suo aiuto un colonnello amico che testimoniò in suo favore. Il professore Emanuele Greco, stretto collaboratore di Mario Napoli, ricorda: «Al concorso impressionò la commissione perché rispondeva brillantemente sia a domande di archeologia che di storia dell’arte (la commissione era unica) al punto che il presidente, interrompendo l’esame, chiese ai colleghi a quale concorso il Napoli fosse iscritto». Vinto il concorso, fu destinato alla Soprintendenza della sua città natale. A quel tempo il padrone assoluto dell’archeologia italiana era Amedeo Maiuri, Soprintendente e professore all’Università Federico II di Napoli. Campo archeologico di assegnazione fu Baia: e fu l’esplorazione del complesso termale di epoca romana e il rinvenimento, dell’Afrodite Sosandra (“salvatrice degli uomini”) copia integra in marmo di un originale bronzeo di Kalamis. Il viaggiatore non troppo informato che vada in giro per la Campania visitando musei o scavi archeologici, inevitabilmente vedrà la necropoli di Pizzofalcone, leggerà brani della storia urbana di Napoli greca e romana, visiterà il Foro di Cuma, città da cui si sviluppò Partenope, ammirerà la Tomba del Tuffatore e le tombe dipinte lucane al Museo di Paestum, vedrà la testa di Parmenide e la Porta Rosa ed i quartieri urbani di Velia, così quasi fossero funghi spuntati per chissà quale misterioso sortilegio. In realtà queste scoperte si devono all’attività di ricerca sul terreno che Mario Napoli condusse incessantemente per un quarto di secolo. In quegli anni partecipò alla vita culturale di quel gruppo di intellettuali napoletani che, con Pugliesi Carratelli, Lepore, De Martino, Gigante, Stazio ed altri animavano la rivista “La parola del Passato”. Scrisse libri quali “La pittura antica in Italia”, “Civiltà della Magna Grecia”, “La Tomba del Tuffatore”, cui ancora oggi fanno riferimento studenti e studiosi delle culture antiche del Mezzogiorno. Ricorda ancora il prof. Greco: «Nello svolgimento del nuovo incarico, Mario Napoli toccò livelli di notorietà che esularono grandemente dall’ambito degli addetti ai lavori. Mentre per il mondo scientifico divenne un protagonista degli annuali Convegni di Taranto sulla Magna Grecia (ricordo la discussione sul ‘faro’, il ritratto di Parmenide, l’arco greco di Porta Rosa per citare alcune tra le scoperte di Velia, la città antica che amava profondamente), al grosso pubblico si impose soprattutto con la scoperta della “Tomba del Tuffatore” di Paestum, un ciclo pittorico del 480-70 a.C., rimasto unico ancora ai nostri giorni». Capolavoro della pittura antica, il “Tuffatore” è oggi sistemato all’interno della sala del museo Archeologico di Paestum, dedicata al suo scopritore. Poi, sempre a Paestum, venne la serie inesauribile di scoperte delle tombe dipinte lucane: furono centinaia, e furono subito oggetto di studio degli specialisti, a cominciare dai suoi allievi, e di stupore di migliaia di visitatori che oggi possono ammirare una straordinaria e rarissima pinacoteca antica del IV inizi III secolo a.C. Angela Pontrandolfo, che ne ereditò la cattedra, raccontava del “metodo Mario Napoli”: l’archeologia non più sui libri di storia dell’arte, ma sul campo, a Paestum come a Velia, con scavi condotti insieme ai giovani studenti universitari. Senza alcuna gelosia, anzi, coinvolgendo studiosi provenienti da altri Paesi del mondo. La naturale facilità di sintesi, la chiarezza e l’eleganza dell’espressione, il tratto gentile e sicuro gli consentiva di guadagnare senza sforzo credito e simpatia. Un “metodo” che lo portava a leggere il terreno, l’orografia, e sapeva leggere uno scavo. Senza dubbio l’operoso quindicennio alla Soprintendenza salernitana rappresentò il periodo di maggior significato nello sviluppo della presenza di Napoli all’interno del panorama culturale italiano. Ricorda Maio Mello: «Furono gli anni nei quali vennero da lui conseguiti i più importanti successi nel campo specifico dell’archeologia, con scoperte che gli procurarono ampia fama in tutta Europa e fu anche il tempo aureo che gli consentì d’intrecciare e mettere a frutto le doti di cui il suo spirito era ricco: l’intuito, che lo guidava sul terreno archeologico e spesso lo conduceva a letture che parevano divinazioni, ma che valeva a dargli rapidi e sicuri orientamenti anche davanti agli uomini, agli avvenimenti, alle circostanze; la sensibilità artistica ed estetica, raffinata, duttilissima, che gli permetteva di percepire vibrazioni d’autentico valore attraverso i vaniloqui e la scompostezza delle mode correnti, come attraverso lo spessore dei secoli e persino dei millenni; la capacità di farsi contemporaneo degli antichi, di arricchire di sempre nuove motivazioni il quotidiano rapporto che intratteneva con essi, d’intenderne la voce, e quella di operare per rendere attuale e feconda l’eredità classica, restituendo vita e consegnando alla fruizione le sue sopravvissute espressioni materiali, valorizzando l’enorme contributo che da esse poteva venire per l’elevazione culturale dell’ambiente». Dal canto suo, Francesco, sesto dei sette figli di Mario Napoli, in una nota scrive che il padre «ha saputo far dialogare i mondi dell’arte, e sennò come poteva venir fuori l’idea di un Museo della Pittura che andasse dalla “Tomba del Tuffatore” alla contemporaneità? Ne discusse a lungo con l’amico artista e pittore Sergio Vecchio, pestano e in quanto tale con l’antichità magnogreca nel Dna e lo sguardo ben fisso al presente. Per questo i due s’intesero». E sapeva leggere al pari la letteratura contemporanea, come la poesia di Alfonso Gatto, con il quale condivise l’amore per l’arte e per Salerno: ambedue frequentavano la Galleria “Il Catalogo” di Lelio Schiavone. Il poeta salernitano dedicò “ai sette figli sette del carissimo professor Napoli” il suo “Il Vaporetto”, del 1964, firmando affettuosamente come “il papà-nonno-cantautore Alfonso” seguito dalla sagoma di un gatto che guarda la luna. In quelle lunghe sere di chiara luna, seduto sui gradini degli antichi templi, Mario Napoli amava “conversare sulla probabile fisionomia del territorio dell’antica Posidonia” Affrontò i silenzi della storia e i segreti del campo di indagine come in una sfida in cui gettare tutte le forze dello spirito. Amava disegnare il futuro, nutrire grandi idee, dar loro forza, consistenza, amava crescere con esse, coltivandole un po’ come sogno, un po’ come direttrice per un impegno di lungo respiro. Nelle calde notti di mezza estate cilentana, quando i corpi sono rinfrancati dalla brezza del vicino mare che già fu dei Tirreni, sull’ampia, sacra spianata della Stoà, alta si eleva ancora la voce di Parmenide e, come allora, sui discepoli di ogni tempo, scende il pensiero: «è, e non è possibile che non sia»; allora «anche le cose lontane, per mezzo della mente, diventano sicuramente vicine».