Si ha un bel riservarle sguardi distratti e pregiudizi, ma la poesia non è mai innocua. Perché dovrebbe, data l’impudenza con cui s’inabissa nel profondo? Le parole acuminate e suadenti di Mariangela Gualtieri trovano un interprete di rara intensità in Roberto Latini, applaudito al Teatro Ghirelli ne “La delicatezza del poco e del niente” nell’ambito di Mutaverso, il progetto di Erre Teatro di Vincenzo Albano. Muovendosi tra “Ossicine”, “Fuoco centrale”, “So dare ferite perfette”, Latini è del tutto distante dalle due trappole in cui può cadere un reading: la proiezione ambigua della propria vanità e un’assolutizzazione del linguaggio che renda invisibile l’attore. Si accosta alle liriche come un amante indifeso, pronto a pagare senza riserve il conto di una dedizione sofferta e inaggirabile. I piedi nudi su una giacca comunicano l’idea di un rituale in cui smarrire i confini tra parola e corpo. La voce distorta dal secondo microfono, che, attraverso echi, si alterna a quella ipnotica che percorre le liriche, allude a una percezione che non può che essere duplice, o meglio, non può che fare a pezzi l’usurata convenzione che distingue soggetto e oggetto, il tutto e ciò che lo compone. L’autrice, in continuo ascolto delle infinite contraddizioni della vita, conosce del resto molto bene “la solfa del tu e dell’io” che impedisce all’amore, cruciale nel suo itinerario poetico, di essere perfetta, incondizionata fusione pari al sale e all’onda, che non esistono l’uno senza l’altra e sono felicemente immuni dal concetto di confine. Il sentimento amoroso non è, agli occhi della Gualtieri, salvezza, consolazione o altrove che obnubila, per quanto la sensualità non perda mai il suo diritto di cittadinanza, ma scacco al nichilismo, abbagliante consapevolezza di come il tetro spettacolo del mondo abbia bisogno di nuovi occhi, prima ancora che di nuove leggi. “Tu non credere a chi tinge tutto di buio pesto e sangue”, scrive la poetessa alla bambina per la quale dare tutti i giardini del proprio regno. L’urgenza di amare è la cifra nascosta del respiro, la forza benedicente senza la quale il fallimento prevale e ci si arrende all’impulso distruttivo che divora e sconvolge. Annientare è talmente semplice, muoversi tra macerie è così usuale per chi non abbia l’energia di interrogarsi e riscoprirsi che l’infanzia, la terra felice dell’immaginario, viene dimenticata e svilita, quando andrebbe recuperata, protetta, venerata con tutta la cura possibile. Il giuramento, che è leale fiducia in una vita al di sopra di comode categorie, è decisivo solo se pronunciato da un animo bambino. Giurare di difendere ciò che passa sotto silenzio, che è considerato insignificante e che invece origina tutto quel che vive, perché ovunque brilla la vita, è il patto che la scrittrice stringe con se stessa e con chiunque voglia seguirla alla ricerca del proprio senso, tra un’apparenza da decifrare e un vuoto in agguato, inseguendo una libertà capace di abitare ogni fibra. Sulle musiche di Gianluca Misiti, in cui ritmo incalzante e tonalità distese attirano lo spettatore verso la propria zona d’ombra, il non detto, il dimenticato, Roberto Latini non può che concludere la sua performance, animata da antitesi e coesione, desiderio e aridità, impotenza e fertilità della parola con “Sii dolce con me”, l’esortazione ad accogliere corpi e anime, finché non ci perderemo nel fluire luminoso dell’universo. “E quanta nostalgia avremo//dell’umano”.
Gemma Criscuoli