di Alfonso Conte
Il destino dei movimenti in polemica contro gli apparati pare essere quello di suicidarsi nel momento in cui sono costretti essi stessi a dotarsi di un apparato, a prevedere procedure per regolamentare i propri processi decisionali. Per limitarci a casi recenti, basterebbe pensare al tentativo di Berlusconi, nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, di superare i partiti dei funzionari, dei congressi e delle tessere attraverso un modello basato sulla personalizzazione della politica e sull’investitura elettorale del leader carismatico, padre e padrone di un partito (non a caso mai autodefinitosi tale: Forza Italia, Popolo della Libertà …) ormai naufragato tra falchi e colombe, tra alfaniani, lealisti e pontieri.
Beppe Grillo e Matteo Renzi sono molto diversi, per molti aspetti agli antipodi, eppure non vi è dubbio che l’ascesa di entrambi sia stata agevolata dalla loro proposta di organizzare la partecipazione politica secondo forme innovative, in seguito ai clamorosi scandali legati all’uso del finanziamento pubblico ai partiti ed alla conseguente polemica contro la casta. Nel caso del M5S, la sperimentazione è stata bruscamente accelerata da un successo elettorale di proporzioni inaspettate, con risultati evidentemente deludenti: si attendevano consultazioni di massa attraverso internet, tentativi originali di coinvolgere attivamente la base, invece è prevalsa una conduzione improvvisata e confusa, sospesa tra tentazioni lideristiche e prese di posizione estemporanee all’interno della delegazione parlamentare. Resterebbe il sindaco fiorentino a far sperare ancora coloro i quali da anni vanamente invocano l’innovazione della forma-partito, ma l’imminente congresso del PD sembra preannunciare ulteriori frustrazioni. È vero, Renzi ha vinto la battaglia per non modificare ancora una volta le regole statutarie; eppure, riservare l’elezione dei segretari provinciali ai soli tesserati, a differenza di quanto previsto per i livelli regionali e nazionale, costituisce una modalità poco coerente con il modello di partito aperto e democratico che i vertici del PD dicono di voler adottare. Viceversa, essa appare come l’ennesima autodifesa dell’apparato, quasi il frutto di un insopprimibile istinto di conservazione dei vecchi dirigenti, che il veemente rottamatore di qualche mese fa sembra aver accettato troppo supinamente. Sicché “aree renziane”, non si sa da chi e quando legittimate a svolgere tale ruolo, hanno espresso proprie candidature, contribuendo a lasciare la questione della direzione delle segreterie provinciali nelle mani di pochi professionisti, da sempre dediti a stucchevoli giochi di gruppo svolti nel chiuso delle proprie stanze e basati su alchimie tattiche, complicati compromessi e macchinose strategie.
A Salerno il candidato dei renziani, o più precisamente dei tesserati renziani del PD, è Sergio Annunziata, il quale dovrà competere con Vincenzo Pedace, candidato dai lettiani, e con Nicola Landolfi, fedelissimo di De Luca, il quale nel precedente congresso si schierò con Franceschini, da poco arruolato anch’egli nelle truppe del sindaco di Firenze. Tra un po’ gli elettori salernitani del PD simpatizzanti di Renzi saranno chiamati a partecipare alle primarie per eleggere i dirigenti del partito. Ma chi prova a spiegarglielo che non si tratta dell’ennesima operazione di facciata, che non è il solito trucco degli uomini dell’apparato e che nell’occasione i cittadini conteranno davvero?