Grande successo di critica e pubblico al Teatro del Giullare per la prima assoluta di “Angelus Domini” di Francesco Siani per la regia di Antonello Ronga
Di GEMMA CRISCUOLI
Accade da sempre: la brutalità cerca sempre di strangolare l’innocenza. E l’innocenza non sa rassegnarsi a essere solo un’illusione. Carla Avarista offre la sua migliore interpretazione in “Angelus domini”, lo spettacolo diretto da Antonello Ronga su testo di Francesco Maria Siani, calorosamente applaudito presso il Piccolo Teatro del Giullare. L’interprete vive il suo ruolo senza un attimo di respiro. Che sia la tenerezza più indifesa o il dolore che lacera e schiaccia, sa creare un equilibrio attento tra l’intensità e la misura, comunicando al pubblico tutta la generosità della consacrazione. Rispetto all’odissea che si abbatte su Adelina, a cui nessun abuso fisico e mentale è risparmiato, mentre la voce fuori campo dell’aguzzino di turno accresce l’angoscia, la scenografia dominata dal bianco (che allude al silenzio delle cose e degli affetti) è specchio fedele, perché immagine di una reclusione fisica e psicologica, ma anche spazio che assolutizza la sua interiorità, in cui dolcezza e memorie infantili sono l’unico antidoto a un’esistenza buia. La piccola statua della Vergine sospesa sulla testa della protagonista promette irraggiungibilità più che amorosa protezione. Dio è invocato, ma anche attaccato: chi ha voluto solo un affetto sincero e viene calpestato è la prova vivente del tradimento di un sogno. Ecco perché l’angelo del titolo non può che essere il figlio di Adelina, vittima a sua volta della sopraffazione, che la guiderà alla pace soltanto nella morte. Se le circostanze hanno le fattezze dell’incubo, l’innocente deve generare da se stesso la salvezza o almeno la possibilità che la realtà non sia unicamente un interminabile scontro tra prede e predatori. Rifacendosi a una tradizione teatrale consolidata, che esalta la sacralità laica della vita contro un contesto (dis)umano lontano anni luce dall’empatia, Siani sceglie nel suo testo di riservare le formule religiose latine proprio al bambino che, novello Cristo, sa che il suo regno non è di questo mondo, che la felicità è una meta al di là di ogni viaggio. Nel momento della totale sconfitta (la donna ha solo intravisto, ma mai imboccato una via d’uscita), la fine della madre diviene sublime trasfigurazione. Fondendosi con le quinte che sembrano donarle ali, ricorda a sua volta una creatura celeste. Inutile cercare la gioia bambina di sapersi vivi tra chi, facendo scempio dell’amore, non può comprendere di essere già morto.