La terribile attualità di Piazza degli eroi - Le Cronache
Spettacolo e Cultura teatro

La terribile attualità di Piazza degli eroi

La terribile attualità di Piazza degli eroi

di Olga Chieffi

Sul palcoscenico del Teatro Verdi di Salerno, è andato in scena lo sferzante Heldenplatz, “Piazza degli eroi”, una commedia di Thomas Bernhard che chiude una lunga parabola di polemiche, di veti, al punto da portarlo a impedirne la rappresentazione o la pubblicazione di quest’opera in patria, e con essa, la vita dell’autore. La provocazione di Heldenplatz è radicale, ieri come cinquant’anni dopo, Bernhard sente puzza di fascismo nella sua patria austriaca. Nella pièce, il professore ebreo Joseph Schuster di filosofia, si è suicidato perché, forse, le cose non sono cambiate in meglio, mentre sua moglie muore alla fine, mentre risuonano, in un’eco spettrale, le grida dei viennesi di allora, davanti a Hitler in parata sulla piazza degli eroi. Un veto che ha portato veto questa regia di Roberto Andò prodotta dal Teatro di Napoli, dallo Stabile del Friuli Venezia Giulia e dal Teatro della Toscana, ad essere la prima assoluta in Italia, con un cast d’eccezione a cominciare da protagonista Renato Carpentieri. In un teatro di parola, come quello di Bernhard, la cui struttura formale è affidata alla variazione, cioè alla ripetizione di un tema, ogni volta modificato in un suo elemento, dalla melodia al ritmo, gli eventi si registrano solo nel linguaggio. Con questa tecnica, la riflessione sul destino umano è come investita da una carica euforica: c’è un’incessante invenzione linguistica che prolifica in forme lessicali e sintattiche, fino al grottesco, con effetti di comicità che attenuano il clima di tragedia. Come Kafka, anche Bernhard è stato un grande autore comico: nel suo humour nero egli mette a nudo ogni forma di mistificazione. I suoi eroi drammatici sono spesso clown che sbeffeggiano il destino, sorridendo per loro totale impotenza, ma affermando così anche la loro precaria libertà. Protagonista è la musica evocata dal pianista Vincenzo Pasquariello, poiché il professore è tornato con la famiglia, da Oxford ‘per la musica’; siamo nel 1988, cinquant’anni dopo l’Anschluss di Hitler, a cent’anni dalla fondazione del Burghtheater, ma io aggiungo alla vigilia della caduta del muro di Berlino, ma in realtà potrebbe essere un anno qualsiasi di questo secolo breve, un eterno presente, dove la memoria diventa quasi ossessione. La letteratura e la musica per Bernhard sono figure di una stessa forma di vita: sono intercambiabili, e non solo perché lo scrittore aveva in gioventù tentato e anche effettivamente intrapreso una carriera da basso-bariton, poi stroncata da malattie polmonari, quanto dal punto di vista della fama. Ecco allora che nella pièce vengono citati il violinista Pablo de Sarasate e il pianista Glenn Gould, la sala d’oro, il Musikverein, da frequentare due volte la settimana, mentre Pasquariello esegue le variazioni sul tema della Follia di Carl Philippe Emmanuel Bach, Cançons I Danses n° VI di Frederic Mompou, lo Chopin dell’op.10 con lo studio n°6, lo Schubert, del Waltz in si minor, Op. 18, n° 6, mentre si sente il finale dell’Änchen’s aria dal “Der Freischütz” di Weber, che accompagna l’Austria del tempo, ma anche la nostra società attanagliata da mediocrazia e populismo che risvegliano istinti nazisti. Nessuno si salva il presidente della repubblica, definito furbo e falso, il presidente del consiglio, scaltro e truffatore, i sindacati, i partiti di destra e di sinistra deboli e ipocriti, l’università preda di docenti stupidi che insegnano i loro stupidari, i giornali locali infarciti di pettegolezzi e scandaletti senza pagine culturali, ma dei quali non si può far a meno, in pratica “una cloaca spiritualmente vuota che implora a squarciagola il ritorno di un regista”. Il ritratto del protagonista ci viene dipinto dai comprimari di questa vicenda: la Signora Zittel, Betti Pedrazzi è Silvia Ajelli, Anna, Paolo Cresta Lukas, Francesca Cutolo Olga, Stefano Jotti il Signor Landauer, Valeria Luchetti Herta, Enzo Salomone, il Professor Liebig. Il registro è sbilanciato decisamente verso il tragico, il sipario si apre sull’enorme stanza del guardaroba, alte finestre, alte porte chiuse, uno spazio che sta per essere completamente svuotato e abbandonato. Ci sono gli scatoloni pronti per essere portati via, le posate sono già impacchettate, restano solo tutte quelle scarpe e tutte quelle camicie, i vestiti di un morto. Il professore non c’è, ma le sue parole vengono continuamente ricordate da tutti i personaggi in scena, simmetricamente, la moglie del professore è presente, ma ammutolita e irrigidita dalle voci assordanti del grande rimosso austriaco. E’ là, l’origine. Noise e nausea sono della stessa famiglia. Lo spazio, in progressione è invaso, interamente, dal clamore, fino alla fine occupati per intero dallo stesso clamore del 1938. Una visione nichilista che i due fratelli hanno affrontato in modo diverso, Robert si è ritirato in campagna rinunciando alla lotta contro il male della società, Josef, ha scelto la liberazione finale. La moglie non reggerà ad una nuova inutile fuga. L’invito è per Anna e Olga agire per realizzare un mondo migliore. Applausi per la superba recitazione della compagnia, e su tutti un eccezionale Renato Carpentieri, latore oramai di un alto magistero attoriale.