Cos’è l’illuminazione? Quel momento, mistico o meno, in cui comprendi davvero quale sarà la tua strada per il resto dei tuoi giorni. E non importa se questa illuminazione arrivi a 16 anni, per caso, durante un lavoretto estivo in un lido. È la storia di Michele Giordano, giovane chef di partita del ristorante Orogiallo Bistrot, locale di Cava de’ Tirreni che il prossimo settembre aprirà una nuova sede anche a Roma. È da qui che oggi Michele sta costruendo, sacrificio dopo sacrificio, il suo sogno.
Michele come è iniziata questa avventura a soli 16 anni?
È iniziata per gioco sinceramente. Ho sempre studiato per diventare cameriere, sin dalle superiori. Un giorno, durante un classico lavoretto estivo ad Acciaroli, nel 2016, mi chiamarono in cucina. Mancava un cuoco e dovevo assistere il capobrigata.
E da lì fu amore a prima vista.
Esatto. Iniziai con piatti semplici come fritture, antipasti, caprese. Vidi il lavoro in brigata, la manualità dei cuochi, la passione che mettevano e ne rimasi folgorato. A scuola non riuscivo ad emozionarmi. C’era poca pratica, poca cucina vera. Molta, troppa teoria. Facevamo tutto tranne che cucinare.
Poi cosa è successo?
Una volta scelta la mia strada l’ho percorsa con decisione. Ho lavorato in diversi ristoranti del Salernitano dove ho imparato tanto. Poi la Sardegna, in un hotel 5 stelle lusso e in Costiera Amalfitana, in un hotel di lusso molto importante dove ho imparato tantissimo dallo chef stellato Giuseppe Stanzione. Avevo alzato l’asticella.
Parlando d’alta cucina e di chef stellati, cosa ha a che fare questo tuo lavoro con quello che vediamo in tv?
Lavorare con un maestro della cucina come Stanzione, tre stelle Michelin in carriera, non è poco. Il mondo dell’alta cucina è un’esperienza totale. Osservi modi di lavoro diversi, rigidissimi ma allo stesso tempo necessari per dare qualità e precisione ad ogni singolo piatto. Seguire le regole è fondamentale. La Tv è un mondo a sé. È il 10% di quello che c’è davvero. Non si vedono le preparazioni, l’adrenalina di cui ognuno di noi si ciba, il servizio. C’è solo il buono della cucina, che invece comprende tanto altro.
Ricordi la prima soddisfazione nel creare un piatto?
Certo. In Sardegna qualche anno fa creai un piatto di polpette di alici con crema di datterino giallo, gel di basilico cristallizzato e pomodoro semidry. La soddisfazione venne quando la portata fu introdotta nel menù alla carta. Ero fiero di me.
Creare un piatto è un qualcosa che richiede tempo e tante prove. Qual è il “tuo” piatto?
Un piatto che vorrei tutti provassero è un fusillo al ferretto, mantecato con crema di broccoli, rifinito con una melassa di cipolla, fondo bruno e fonduta di caciocavallo podolico. Per crearlo ho impiegato poco meno di una settimana, consumando 4 kg di pasta e 40 piatti prima di trovare il giusto equilibrio.
Cosa diresti ad un giovane che voglia affrontare lo stesso percorso?
Questo mestiere è una sfida non comune fra i miei coetanei. Io ho scoperto di averlo nel sangue. Sono sempre stato il più piccolo di tutta la cucina, anche oggi che invece sogno di aprire un ristorante a km zero, con il proprio orto e la propria cantina, lontano dalla mia città. Ad un ragazzo della mia età direi di apprendere da chi ha più esperienza e di farne tesoro. Cambiare ristorante, non rimanere sempre in un solo luogo. Fuggire dalla sua comfort-zone e non fermarsi mai.