Di Olga Chieffi
Durante un concerto di arie partenopee, non resta altro da fare che scrivere qualche battuta, poiché è la tradizione classica napoletana che il pubblico va ad applaudire. “Voglio cantare e si nun canto moro,/ E si nun canto me sento murire. /Me sento fa’ nu nureco a lu core/Nisciuno amante me lo po’ sciuglìre”. In questi versi di Libero Bovio, è racchiusa tutta l’esplosione passionale del sentire musicale partenopeo. E’, la canzone napoletana, la storia di un popolo che attraverso altissimi versi e musica immortale, si è posto in cammino, cantando il suo sentire, i suoi contrasti, la sua bellezza, la sua libertà, il suo amore, aprendosi ad ogni contaminazione, pur mantenendo intatta la propria inconfondibile identità, misteriosa e sfuggente. Il teatro Verdi di Salerno, ha inteso chiudere la prima parte della sua stagione con un concerto di un duo particolare, composto da Eduardo De Crescenzo alla fisarmonica e, naturalmente, alla voce e Julian Oliver Mazzariello al pianoforte. Quando nasce la canzone napoletana? ll canto delle lavandaie del Vomero nel suo testo è semplicissimo, ma già perfettamente carico di tutti quei sentimenti malinconici e delicati tipici della canzone e della poesia napoletana e che ritroviamo Federico Vacalebre che alto ha giustamente lanciato il suo grido la vergogna che la canzone napoletana non abbia avuto ancora il riconoscimento Unesco quale bene immateriale dell’Umanità, come il reggae, il fado o il canto a tenore sardo facendo quindi una lista di progetti e tradizioni semisconosciute che hanno pur ricevuto legittimazione mondiale, quando, ‘O sole mio, può essere considerato il secondo inno d’Italia. Il concerto, infatti, si lega anche all’uscita del cofanetto con libro pubblicato e distribuito dall’etichetta discografica Betty Wrong Edizioni Musicali di Elisabetta Sgarbi, e il libro, pubblicato e distribuito da La nave di Teseo, un progetto che rappresenta l’omaggio che Eduardo De Crescenzo, nel pieno della sua maturità espressiva e che si spera possa far aprire gli occhi ai grandi giudici dell’Unesco. Napoli è la città dei Conservatori e delle musiche immortali dei vari Paisiello, Pergolesi, Bellini e del numero immenso di artisti che frequentarono la scuola musicale napoletana, di lì e noi dobbiamo e possiamo dire che se si prova ad accennare qualche frase di Boccuccia de no pierzeco maturo del 1537 e di seguito qualche nota di Napule è del 1977, ci si accorgerà che hanno la stessa matrice, ovvero che sono figlie della stessa madre, in questi quasi cinquecento anni, il solco tracciato è leggenda. Il trio, che si è presentato quasi come il depositario musicale e musicologico della tradizione musicale partenopea, concentrandosi, in musica e parole, in particolare sul periodo d’oro della canzone napoletana, ovvero quella che va dal 1800 al secondo dopoguerra, con il recupero degli spartiti d’epoca. La serata è stata aperta da un video animato dedicato a Marechiaro, quindi Fenesta Vascia con un Julian Oliver Mazzariello, che non crediamo abbia eseguito gli spartiti originali ma certamente lavorato su di essi con eccelso cesello, mai andando “oltre”, sia per invenzione che per tocco la linea per sottrazione che è stata scelta, dando colore a capolavori che Eduardo De Crescenzo ha eseguito in un’aura pallida e non poche volte con problemi d’intonazione. Il pubblico in sala che avrebbe voluto partecipare e tra le labbra l’hanno fatto tutti, ai ritornelli di I te’vurria vasà o Era de maggio o ancora I te voglio bene assaie, o Dicitencello vuje, Canzona Appassiunata, A vucchella, fino a Munasterio e Santa Chiara, o ancora Luna Rossa, scritta dal padre Vincenzo, ma è rimasto ghiaccio da questa aura della quale il cantautore ha voluto ammantarsi. Ha impressionato il confronto plurilinguista, di Julian Oliver Mazzariello, in cui la canzone è stata liberata da ogni manierismo esecutivo, per ridonarla all’ascoltatore, filologicamente pura, ma con lo sguardo rivolto ad un futuro aperto ad ogni influenza diretta o indiretta, che la naturale evoluzione del linguaggio musicale ha esercitato su questa struttura compositiva, con citazioni e passaggi che hanno spaziato dal Bach dei preludi allo Chopin della famosa Mazurca op.33. Ma le canzoni e i testi sono insuperabili e hanno presa sul pubblico comunque esse siano cantate Santa Lucia Luntana, Silenzio Cantatore, perché a Napoli anche il silenzio dice la sua , e l’omaggio all’Eduardo ma, De Filippo, di Gennariniello con “Uocchie che arraggiunate”. Musiche e versi che con i loro contenuti raccontano semplicità ed erotismo, essoterismo e magia, rituali sacri e profani, feste popolari che sono andati a comporre un incredibile canzoniere dove le suggestioni, le intonazioni, le evocazioni di un vernacolo, che è più una lingua che un dialetto, si trasforma in un canto ora dolente, ora euforico, capace di esprimere l’eterno incanto dei sensi, di questa fascinosa e misteriosa Partenope, in quel viaggio nell’anima che, comunque, si rinnoverà evocativamente, sull’onda dell’emozione, delle parole e della musica, fino alla fine dei tempi.