
Olga Chieffi
La notizia giunse come un fulmine a ciel sereno quel 24 febbraio del 2022: il sindaco di Milano, presidente del Teatro alla Scala, chiese al direttore russo Valerij Gergiev, di dissociarsi dall’invasione di Putin all’Ucraina. Il musicista tacque e il teatro, all’indomani della prima interruppe i rapporti, sostituendo il direttore dalle altre recite della Pikovaya dama di Pëtr Il’ič Čajkovskij, così come anche altri paesi – Stati Uniti, Germania, Austria, Inghilterra, Olanda – ostracizzarono lo czar. L’Occidente si distanziò da quell’artista russo perché non abiurò, chiudendo alla cultura russa tout court. Il maestro a Milano sul podio per il capolavolo di Čajkovskij, un compositore cui si è spesso rimproverato d’essere fin “troppo” occidentalizzato quasi fuggì dopo la prima, e di lì l’ostracismo totale, ricordiamo il proclama con cui l’Università di Milano Bicocca, nel “rimandare” le lezioni dello scrittore Paolo Nori su Dostoevskij, con cui intese “evitare ogni forma di polemica in un momento di forte tensione”. Una forma di cancel culture non degna di un’istituzione, l’università, che ha la mission di incentivare la conoscenza e gli scambi. Da parte sua, la Siae, a firma del presidente, Giulio Rapetti Mogol (1° marzo), comunicò che, “come segnale di solidarietà nei confronti dell’Ucraina”, avrebbe sospeso “il pagamento del diritto d’autore alle società d’autori russe, fino al termine del conflitto”. Contro tali sanzioni culturali, il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, pur dette un concerto “Insieme nella musica” con allievi ucraini e russi, mentre gli organizzatori del Concorso pianistico Busoni di Bolzano, ricordarono che esso nacque nel 1949 per “curare le ferite della seconda guerra mondiale e costruire ponti tra nazioni e culture” e sarebbe stato aperto a tutti. Dopo tre anni di completo ostracismo, Valery Gergiev pare ritorni a dirigere in Europa e lo farà ad “Un’Estate da Re”, alla reggia di re Carlo di Borbone, che inaugurata nel 1752 era simbolo, insieme alla residenza napoletana, al San Carlo, e al regno delle due Sicilie, del centro del mondo culturale dell’epoca. Valery Gergiev tornerà per mano di Antonio Marzullo, salernitano, erede di quella Schola nata da un ebreo, un arabo, un greco, un latino, in tempi in cui le dominazioni politiche non ostacolavano gli scambi culturali tra i popoli. Una vera magia quella di riportare Gergiev in Italia, se verrà realizzata, nell’ambito di un programma che vedrà Daniel Oren sul podio per La Traviata, la partecipazione di Tony Servillo e non sappiamo ancora quali altre sorprese che disveleranno le bellezze della Reggia e di quella cultura senza barriere e dell’accoglienza, che contraddistingue quel nostro essere centro del Mare Nostrum. Lo Czar, schivo, mai alla ricerca dell’immagine (nessuno mai nasconde trepidazione nell’incontrare il suo sguardo), attaccherà secondo i suoi inimitabili gesti, sul podio, una statua, che sembra quasi non dirigere. In prova andamenti anche più lenti, quasi una semplice lettura, poi in concerto, una trasformazione, generata da un lavoro puntiglioso: un suono abbagliante o carezzevole, esile come un filo di seta o “gonfio” come un mare in tempesta, purissimo o soffocato, rivelatore dei più riposti meandri dell’anima, nato dalla capacità di dominare tutte le sezioni e tutti gli strumenti, finanche nel vibrato, indicato dalle dita. Il programma scelto, principierà con l’ouverture de’ “La forza del Destino”, con quei suoi accordi, reiterati, così difficili da rendere, che ribadiscono la tonica, simbolo del destino funesto che si abbatterà su Leonora, il tema sinistro e inquieto della maledizione, intrecciato con la melodia del duetto tenore-baritono dell’ultimo atto, sino alla conclusione non drammatica, con il tema di Leonora riproposto nel contesto di una scrittura orchestrale brillante. Affinità elettive per Gergiev nella Sinfonia n.5 in mi minore, op.64, composta da Pëtr Il’ič Čajkovskij. E il “destino” penetra anche questa partitura. L’autore rimasto per tutta la vita un bambino di vetro, creatura fragile ed introversa, nevrotica ed ossessiva, in equilibrio precario tra trasgressione e repressione, la sua musica ne è diretta espressione: il pathos sovrabbondante, la sensualità di molti suoi passaggi sinfonici, il lirismo che sfocia nel sentimentalismo più acceso ed eccessivo, tutto ciò mostra una sensibilità amplificata, dove ogni sensazione, dalla positiva a quella negativa, vengono enfatizzate, deflagrando in uno stile unico, inimitabile, personalissimo. Una sorta di tema conduttore lega tutti e quattro i movimenti della composizione: il tema, esposto inizialmente dal clarinetto nel registro basso al principio dell’Andante introduttivo, vuole esprimere, secondo Cajkovskij, “una completa rassegnazione di fronte al destino”. Finale celebrativo del centocinquantenario della nascita di Maurice Ravel. Lo Czar ci farà riascoltare il suo Bolero, che fu bis del suo concerto al teatro Verdi di Salerno, un unico, continuo e graduale crescendo, costruito su una melodia chiara ed inarrestabile: la musica appare di stupefacente semplicità, disegnata con i pochi tratti di un ritmo ostinato che si ripresenta sempre uguale a se stesso, celante quel finissimo gioco di combinazione degli strumenti dell’orchestra, che entrano uno dopo l’altro ad arricchire il suono, in una trascinante progressione, dal flauto ai sax tenore e soprano, fino all’esplosione finale, che accenderà l’applauso di una platea interamente ai piedi di uno speriamo, finalmente, ritrovato Valery Gergiev. (foto Francesco Truono)