Di Gemma Criscuoli
Una casa come tante, un bicchiere vuotato troppe volte, la domanda che non andrebbe mai fatta: “Sei felice?”. Viaggio in un abisso in cui è fin troppo facile cadere, “ Il lupo” di Francesco Maria Siani, diretto da Fabiana Fazio, ha ricevuto una calorosa accoglienza presso il Piccolo Teatro del Giullare. Francesca Cercola, Serena Mazzei e Nello Provenzano creano un equilibrio perfetto nel costruire la crescente tensione di un uomo che decide di abbandonarsi ai propri demoni. La natura ossessiva dello spettacolo, in effetti, rende motivata la scelta, secondo cui le attrici interpretano ruoli differenti, spesso deformati dall’ottica del protagonista. Se è la presenza femminile a costituire il perturbante nella vita di Matteo, padre e marito inaffidabile, sarà proprio quest’ultima a incarnare stereotipi di bassa lega, come l’idea che una donna vada guidata come una Ferrari o che, nell’infinito gioco di seduzione, sia una giovane a prevalere su un’amante non più nel fiore degli anni. I luoghi comuni, infatti, permettono di giustificare il rancore verso colei che osa compiere scelte autonome, sfuggendo alla categoria in cui si preferirebbe confinarla. L’alcol è naturalmente un sintomo, non l’origine del malessere. Matteo non ha mai saldato i conti con se stesso e questo l’ha spinto a privilegiare l’ipocrita arrivismo borghese rispetto ai sentimenti. Ecco allora che la moglie Elena si sente abbandonata sotto il peso di un’insensata routine, fino a tradirlo con il socio Dario, insulto intollerabile a una virilità che si finge solida e razionale, mentre è consumata da un rabbioso senso di inadeguatezza. Non possono mancare il ricatto emotivo (il marito rinfaccia alla moglie, che allude alle proprie umilissime origini, di averle dato tutto) e lo scontro con la madre, il cui pudore dei sentimenti è interpretato dal figlio come distanza e disprezzo. La figlia Charlie, che ha sempre avuto nel genitore un sostegno, si chiede dove sia finito quel gigante buono che si picca di parlare in francese e manifesta un affetto che puntualmente non trova riscontro nei fatti. Che sia proprio la figlia a sventare un tentativo di stupro, dapprima nei riguardi di Elena e poi verso Carmen, la vicina scambiata per la moglie nel delirio etilico e che rischia di soccombere, è coerente con la messinscena: inutile attendersi un comportamento maturo da chi dovrebbe vegliare su una famiglia e invece avverte solo pulsioni negative. Quando Charlie diventa Dario ed Elena diventa Carmen, Matteo è fisicamente preso tra due fuochi che ironizzano sull’esistenza e sull’illusione, non solo perché sono fantasmi della mente dell’uomo, ma anche perché l’incapacità di amare toglie concretezza a ciò che dovrebbe contare davvero. I gesti e le parole, di conseguenza, si ripetono, in quanto ormai scollegati dal proprio senso ultimo. Quando moglie e marito si dicono “Stringimi” dopo la rivelazione del tradimento, oppongono cocciutamente alla fine della relazione lo spavaldo desiderio di riscrivere una storia diversa e, nel momento in cui una romantica canzone francese fa da sottofondo alle aggressioni, si scava una distanza implacabile e ironica tra il miraggio dell’amore e l’urgenza del possesso. La figura principale, nel ritrovarsi in una cupa solitudine dove si illude di poter fare a meno di chiunque, vorrebbe vivere la vita delle bestie, essere puro istinto anche a costo di andare incontro alla paura e alla morte : è qui evidente il bisogno di autoassolversi, di restituire alla purezza scomoda della parte animale la giustificazione delle proprie scelte. Le bestie, tuttavia, non fanno delle proprie attitudini un’arma impropria, non devono dimostrare continuamente la propria superiorità per sentirsi vive. Credere che al posto di Carmen ci sia Elena risponde a una duplice esigenza: esternare il desiderio di un’altra donna, dissimulato dall’atteggiamento scherzoso, e dominare la moglie, dato che colpire è più facile che capire e fare violenza a un corpo è l’ultimo rifugio di chi vuole essere riconosciuto in un’identità sacrificata a una dimensione oscura. L’annodare con furia la cravatta attorno al collo della vittima senza che quest’ultima effettivamente ci sia è la prova che Matteo vuole restare prigioniero di una disumanità cieca. La sua ultima parola, mentre fa un brindisi, è salute, come all’inizio della rappresentazione. Poco importa fino a che punto abbia immaginato tutto. Oltre la compostezza borghese, a cui si crede di poter tornare in ogni istante, si aprono porte che non bisogna varcare.





