In pochi sono a conoscenza della grande amicizia esistente tra Pietro Falivena (memoria storica della pittura salernitana ed indiscusso artista) e Manfredo Nicoletti ultimo esponente della “corrente dei costaioli”. Delle lunghe giornate trascorse tra i due ed i suggerimenti “tecnici” che, il maestro di Cetara dispensava ad un allora giovane pittore che, con talento e sacrificio si stava affacciando nel frastagliato mondo della pittura. E proprio partendo da questo legame di amicizia, e dai ricordi gelosamente custoditi da Pietro Falivena che, la bellezza artistica di Manfredo Nicoletti viene a presentarsi oltre che sotto l’aspetto squisitamente artistico, soprattutto nella sua veste umana. -“Ricordo quando assieme a tutta la mia famiglia raggiungevo Manfredo nella sua casa cetarese, non prima di aver preso i “babà” presso la pasticceria Pantaleone che, oltre a deliziare il suo palato, avevano il dono anche se per pochi minuti, di rendergli meno amara la propria malattia. Rammento ancora quella rabbia che sprigionava dagli occhi quando guardandosi le mani non si rassegnava al fatto che esse ormai rattrappite dalla malattia non rispondevano più all’estro. Rivedo ancora le sue tavole di masonite allineate come fedeli amiche lungo il pavimento, tavole rigide ed austere preferite alle tele, in quanto il morbo di Parkinson che ornai lo devastava non gli permetteva più la delicatezza del segno sulla tela. Ho ancora nella mente i suoi consigli che, in quel momento di crescita furono per me basilari. Quando sforzandosi nel parlare mi diceva con voce rotta dal tremore che io coloravo e non dipingevo i miei lavori. Ed allora rimanevo lì ad ascoltarlo in silenzio ossequioso, facendo tesoro di ogni sua sillaba. Del resto l’esperienza pittorica di questo grande maestro era frutto di una vita maturata in giro per il mondo, una esistenza respirata in quegli “atelier” dove il pulsare della vera pittura infuocava i giovani animi artistici. Ed io per un po’ mi sentivo come poteva sentirsi lui agli inizi del “percorso”: voglioso di sapere, voglioso di conoscere, voglioso di fare mia la sua vita perché in lui vedevo me”.- Manfredo Nicoletti è stato senza ombra di dubbio, l’ultimo grande esponente della “corrente dei costaioli”. Il suo primo maestro fu Raffaele D’Amato (grosso esponente della famosa “Scuola”) il quale rifacendosi al proprio allievo diceva che possedeva la dote della riflessione, un elemento che in un artista è di vitale importanza, specie quando questa è abbinata al ragionamento. Egli nacque a Maiori nel 1891, come detto fu prima allievo di Raffaele D’Amato e successivamente all’Accademia di Belle Arti di Napoli si perfezionò grazie ai consigli di Dalbono e Cammarano. Giovanissimo partì per la grande guerra dove si distinse per alcune gesta eroiche che oltre a numerose medaglie gli procurarono ferite sul corpo e soprattutto devastazione nell’anima. Ritornato dal conflitto mondiale si stabilì prima a Ravello dove conobbe e sposò Rosa Del Pizzo, per poi trasferirsi a Cetara. Ma in effetti questo ridente centro della costa amalfitana per molti anni rappresentò per lui solo un punto di riferimento, visto che l’artista si considerava figlio del mondo. Manfredo Nicoletti come pittore prediligeva le vecchie mura, le vie campestri, le torri antiche, le case aggrovigliate nella loro architettura rupestre, egli possedeva un attenzione per tutto ciò che gli offriva quel modo di genere netto, squadrato, ritagliato, finanche nella rappresentazione del cielo sembrava cercare una geometria nascosta. Come riporta sulla scorta dei propri ricordi Pietro Falivena, Nicoletti rifuggiva dall’impressione rapida nella quale rischiava di consumare il proprio interesse, disponendo altresì di masse solenni e soprattutto cercando la linea alla base del colore e quest’ ultimo alla base dell’emozione. I punti riformisti della propria pittura, seguivano il percorso tracciato da Cezanne e Picasso, linee guida che applicate in chiave molto personale gli tributarono nel tempo apprezzamenti ovunque esponeva. I suoi colori atmosferici erano un tributo alla vita e alla pittura, ai silenzi dell’uomo facevano da contro altare la musicalità delle sue opere, la delicatezza raccontata in chiave contemporanea del mondo che lo circondava, o come lui soleva dire “che lo ospitava”. Ricordo quelle domeniche mattina trascorse a casa sua, il suo camminare lento e sofferto, rammento ancora la dignità di un uomo che pur offeso dalla malattia cercava di nascondere il proprio male attraverso il sorriso. Una dignità mai doma che purtroppo non ebbe la forza di allontanare la morte. Ricordo quando i suoi occhi saettavano gioia nei racconti dei suoi trascorsi all’estero. Della stupenda esperienza vissuta a Londra ospite della famiglia Alington (la cui moglie era dama di corte della Regina mentre il marito ricopriva la carica di Headmaster a Eton College). Il grande salto presso Re Giorgio V che nel tempo divenne assieme alla Regina suo grande ammiratore. Gli anni nei quali il maestro di Cetara dipinse per loro opere e ritratti stupendi che, ancora oggi fanno parte del patrimonio dei Reali inglesi. Ma come lui soleva ripetere all’amico Falivena, la nostalgia per la costiera amalfitana ed il continuo ripetersi delle giornate grigie ed umide non favorirono oltre la propria permanenza:-“ Pietro pioveva sempre, mi mancava il sole e il mare della costiera, ormai non ce la facevo più e a malincuore io e la mia famiglia ce ne andammo !”-. E fu così che l’artista ritornò a Cetara dove purtroppo dopo qualche anno si ammalò di Parkinson, un male che ne indebolì la mano, ma che mai piegò il suo spirito indomito. A questo punto del racconto, il maestro ed amico Pietro Falivena si ferma per un attimo colto da un senso di emozione, una pausa di ossequioso rispetto verso chi oltre all’amicizia gli ha donato la propria esperienza di vita. Una esistenza trascorsa in giro per il mondo e dedicata a due grandi amori : la famiglia e la pittura. E alla fine quando le energie necessarie anche per poter camminare gli venivano meno, trascorse il tempo rimastogli sul terrazzo della propria abitazione, dove proiettando lo sguardo verso i magnifici panorami liberava assieme al pensiero il proprio animo e, sfruttando le ultime forze della mano continuò a dipingere e a sognare fino a quando la malattia lo distrusse del tutto. – “Pietro… se vieni domenica, fammi il piacere…portami i babà i Pantaleone… nun te scurdà!….”- (disse con voce ancora più impastata e tremante Manfredo) -“ Maestro, per me sarà un piacere state sereno, ci vediamo domenica prossima, così ne approfitto anche per fare un bagno con la famiglia!….”- (rispose Pietro) Quella domenica purtroppo non arrivò, perché da quel momento i due amici non si videro più. Nicoletti morì a Cetara l’8 agosto del 1978 lasciandosi alle spalle coloro che di lui si erano dimenticati (e furono in tanti) e quei pochissimi veri amici come Pietro che gli furono accanto fino alla fine. Antonio Giunto
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