di Giovanni Perna
«Seize … upon the moment of long ago
One breath away and there you will be
So young and carefree again you will see
That place in time
So gold»
One breath away and there you will be
So young and carefree again you will see
That place in time
So gold»
– E che, sempre in quel posto noi, ce lo dobbiamo prendere? –
Di anno in anno in anno, l’eco dei miei pensieri aveva tutte le ragioni del mondo. Di campionati vinti, stracciati, ad agosto e persi, stracciati – nel senso di carta straccia – a Natale ne ho quanti ne volete, ché a noi non toccava mai.
Neanche col mezzo miracolo di Romano Mattè. Neanche quando Tobia al “Capitol” presentò la squadra, e quella presentazione assomigliava già ad una festa di fine torneo, col mister che abbracciava tutti sussurrando: «È serie B, è serie B». Finì con Salerno sogna e Padovano segna.
A noi non toccava mai. Neanche quell’anno, pareva.
Neanche dopo averla messa quasi in tasca, dopo il pareggio in casa con la Casertana.
Dall’Inferno venivamo, dall’Inferno bisognava passare. Eppure, l’aria profumata di gelsomino che accompagna la beatificazione di una squadra che sta per vincere il campionato la respiravamo tutti.
Intendiamoci, niente a che vedere con uno schiacciasassi, ma quella squadra era tremendamente efficace.
Due goleade e mezzo, ma non perdeva quasi mai. A Taranto, a Terni, ed una sola in casa, ma la tengo per dopo.
Perché adesso vi mettete seduti, e parliamo di alcuni reati caduti in prescrizione.
Quella squadra vincente non era roba da “Mulino Bianco”. Certo, alla fine sono tutti biondi e con gli occhi azzurri. Ma le personalità erano tante e forti.
E lo spettatore d’eccezione che si sedette in Tribuna al “Riviera delle palme” alla prima di ritorno sta lì a dimostrarlo. L’episodio colico di Agostino, che mi viene da ridere se penso a quel che sarebbe accaduto oggi, in epoca social. Dopo lo scoppolone di Taranto, il punto più basso del torneo.
Ma non è questo il reato più grave da confessare, a prescrizione avvenuta. È un altro, sedetevi.
La Casertana, quella del ritorno, giocava molto meglio. Ci fossero stati i tre punti per vittoria, sarebbero andati loro, in B.
Ma chi pensa che questa sia una critica, una diminutio, è proprio un fessacchiotto.
Aumenta, ancora oggi e mi pare impossibile, lo smisurato godimento. Ché tante di quelle vittorie dei rossoblu fetevano di scarrafone.
Dall’Inferno venivamo, si diceva. Ed il diavolo spesso si nasconde dietro insospettate vesti. Sandro Cangini, vi dice niente?
Se lo cercate con Google vi esce un articolo, “Palermo, la lunga lista dei bidoni”.
Al tramonto di una stagione insignificante, il “bidone” mise dentro al “Vestuti” due dei cinque gol complessivi della stagione. Sconfitta interna, bandiere della festa ripiegate, la tentazione di togliere il punto interrogativo alla frase che apre questa nota.
L’inizio di due settimane terribili, l’annullamento di qualsiasi rapporto sociale, un’unica risposta: «Vaffanculo». Quale che fosse la domanda, anche se ti chiedevano l’ora.
Niente altro che Brindisi, all’orizzonte. Con la notte insonne che la precedette, e l’eterno bivacco del sabato sera sul Lungomare che ebbe termine sul cavalcavia ferroviario di via Guercio. Là dove i treni rallentano, là dove rallentò un treno notturno diretto a Giarre. Volarono mazzi di fiori ed auguri di “vinca il migliore”, se ben ricordo.
Di Brindisi ricordo il caldo, l’assenza di bar ed autogrill lungo la strada, un antistadio enorme e senza ombra, un muro di cinta dove avevano dipinto “Siberiano, ti puzzuno li piedi”.
Un Brindisi già retrocesso e fallito, che miracolosamente – vi è più chiaro, ora, il godimento di cui sopra? – richiama i suoi calciatori migliori. Risorti dalla cenere. Addirittura uno di loro, Orati, in campo con la mascherina di plexiglass ed il naso rotto, i maledetti se la giocarono.
Ma le maledizioni finiscono, tutte. La nostra finì quando Ago al 42’ trasformò in segno del destino quello che fino ad un secondo prima era un pallone, insaccandola alle spalle di un portiere con nome di avvolgibile.
Come nella battaglia di Lungacque de “il Signore degli Anelli” finì un sortilegio. Un’orgia la settimana che seguì, prima di uno scontatissimo Salernitana-Taranto.
No, non saremmo stati noi, ancora una volta, a prenderlo in quel posto. Con la festa della promozione iniziata due ore prima della partita, il completo chiaro di Agostino che illuminò di mai più vista luce il sopralluogo dei calciatori, una contesa che ebbe termine dopo due minuti, quando Picci, accortosi di essere capitato per sbaglio vicino alla porta avversaria, scagliò deliberatamente il pallone in curva. Ben prima del triplice fischio, il segnale che la guerra era finita.
Marco e Fabio mi hanno chiesto di ricordare, l’ho appena fatto. Altro ancora mi hanno chiesto, di spiegare perché, tra le poche gioie che ci sono toccate, questa del ‘90 siede sul trono.
Non so se ci riesco. Ma ho intitolato questa nota come un libro della Mazzantini, introdotta con versi di Stevie Wonder.
Si legano, le due cose, con un filo speciale. Che avvolge il granata, certo, ma ha il colore dell’oro. Dorato come un amore di provincia, il solo calcistico che abbia vissuto. E che vivo.
Declinato al presente perché non ho bisogno di ripescare nella memoria, di chiudere gli occhi, di cercare un profumo per ritrovarlo. Sta con me.
E se l’amore insegna, allora mi ha insegnato che ogni tanto può toccare a me, che gli anni non muoiono sempre a dicembre, che posso guardare un po’ più in alto, anche io.
E non so se sono fatto bene o male, ma quel che sono è merito pure di quei giorni.
Al filmato di quel tempo che scorre in loop ho sempre chiesto, in questi trent’anni, di non andare via. Resta d’oro, e non ti muovere.
È amore vero, non lo ha ancora fatto. Un giorno mi ha detto che non accadrà mai.
Di anno in anno in anno, l’eco dei miei pensieri aveva tutte le ragioni del mondo. Di campionati vinti, stracciati, ad agosto e persi, stracciati – nel senso di carta straccia – a Natale ne ho quanti ne volete, ché a noi non toccava mai.
Neanche col mezzo miracolo di Romano Mattè. Neanche quando Tobia al “Capitol” presentò la squadra, e quella presentazione assomigliava già ad una festa di fine torneo, col mister che abbracciava tutti sussurrando: «È serie B, è serie B». Finì con Salerno sogna e Padovano segna.
A noi non toccava mai. Neanche quell’anno, pareva.
Neanche dopo averla messa quasi in tasca, dopo il pareggio in casa con la Casertana.
Dall’Inferno venivamo, dall’Inferno bisognava passare. Eppure, l’aria profumata di gelsomino che accompagna la beatificazione di una squadra che sta per vincere il campionato la respiravamo tutti.
Intendiamoci, niente a che vedere con uno schiacciasassi, ma quella squadra era tremendamente efficace.
Due goleade e mezzo, ma non perdeva quasi mai. A Taranto, a Terni, ed una sola in casa, ma la tengo per dopo.
Perché adesso vi mettete seduti, e parliamo di alcuni reati caduti in prescrizione.
Quella squadra vincente non era roba da “Mulino Bianco”. Certo, alla fine sono tutti biondi e con gli occhi azzurri. Ma le personalità erano tante e forti.
E lo spettatore d’eccezione che si sedette in Tribuna al “Riviera delle palme” alla prima di ritorno sta lì a dimostrarlo. L’episodio colico di Agostino, che mi viene da ridere se penso a quel che sarebbe accaduto oggi, in epoca social. Dopo lo scoppolone di Taranto, il punto più basso del torneo.
Ma non è questo il reato più grave da confessare, a prescrizione avvenuta. È un altro, sedetevi.
La Casertana, quella del ritorno, giocava molto meglio. Ci fossero stati i tre punti per vittoria, sarebbero andati loro, in B.
Ma chi pensa che questa sia una critica, una diminutio, è proprio un fessacchiotto.
Aumenta, ancora oggi e mi pare impossibile, lo smisurato godimento. Ché tante di quelle vittorie dei rossoblu fetevano di scarrafone.
Dall’Inferno venivamo, si diceva. Ed il diavolo spesso si nasconde dietro insospettate vesti. Sandro Cangini, vi dice niente?
Se lo cercate con Google vi esce un articolo, “Palermo, la lunga lista dei bidoni”.
Al tramonto di una stagione insignificante, il “bidone” mise dentro al “Vestuti” due dei cinque gol complessivi della stagione. Sconfitta interna, bandiere della festa ripiegate, la tentazione di togliere il punto interrogativo alla frase che apre questa nota.
L’inizio di due settimane terribili, l’annullamento di qualsiasi rapporto sociale, un’unica risposta: «Vaffanculo». Quale che fosse la domanda, anche se ti chiedevano l’ora.
Niente altro che Brindisi, all’orizzonte. Con la notte insonne che la precedette, e l’eterno bivacco del sabato sera sul Lungomare che ebbe termine sul cavalcavia ferroviario di via Guercio. Là dove i treni rallentano, là dove rallentò un treno notturno diretto a Giarre. Volarono mazzi di fiori ed auguri di “vinca il migliore”, se ben ricordo.
Di Brindisi ricordo il caldo, l’assenza di bar ed autogrill lungo la strada, un antistadio enorme e senza ombra, un muro di cinta dove avevano dipinto “Siberiano, ti puzzuno li piedi”.
Un Brindisi già retrocesso e fallito, che miracolosamente – vi è più chiaro, ora, il godimento di cui sopra? – richiama i suoi calciatori migliori. Risorti dalla cenere. Addirittura uno di loro, Orati, in campo con la mascherina di plexiglass ed il naso rotto, i maledetti se la giocarono.
Ma le maledizioni finiscono, tutte. La nostra finì quando Ago al 42’ trasformò in segno del destino quello che fino ad un secondo prima era un pallone, insaccandola alle spalle di un portiere con nome di avvolgibile.
Come nella battaglia di Lungacque de “il Signore degli Anelli” finì un sortilegio. Un’orgia la settimana che seguì, prima di uno scontatissimo Salernitana-Taranto.
No, non saremmo stati noi, ancora una volta, a prenderlo in quel posto. Con la festa della promozione iniziata due ore prima della partita, il completo chiaro di Agostino che illuminò di mai più vista luce il sopralluogo dei calciatori, una contesa che ebbe termine dopo due minuti, quando Picci, accortosi di essere capitato per sbaglio vicino alla porta avversaria, scagliò deliberatamente il pallone in curva. Ben prima del triplice fischio, il segnale che la guerra era finita.
Marco e Fabio mi hanno chiesto di ricordare, l’ho appena fatto. Altro ancora mi hanno chiesto, di spiegare perché, tra le poche gioie che ci sono toccate, questa del ‘90 siede sul trono.
Non so se ci riesco. Ma ho intitolato questa nota come un libro della Mazzantini, introdotta con versi di Stevie Wonder.
Si legano, le due cose, con un filo speciale. Che avvolge il granata, certo, ma ha il colore dell’oro. Dorato come un amore di provincia, il solo calcistico che abbia vissuto. E che vivo.
Declinato al presente perché non ho bisogno di ripescare nella memoria, di chiudere gli occhi, di cercare un profumo per ritrovarlo. Sta con me.
E se l’amore insegna, allora mi ha insegnato che ogni tanto può toccare a me, che gli anni non muoiono sempre a dicembre, che posso guardare un po’ più in alto, anche io.
E non so se sono fatto bene o male, ma quel che sono è merito pure di quei giorni.
Al filmato di quel tempo che scorre in loop ho sempre chiesto, in questi trent’anni, di non andare via. Resta d’oro, e non ti muovere.
È amore vero, non lo ha ancora fatto. Un giorno mi ha detto che non accadrà mai.