di Giovanni Falci
In prossimità dei referendum sulla giustizia si sta scatenando il dibattito sui sostenitori dei SI e quelli del NO: il più delle volte il dibattito coinvolge persone che di giustizia, anzi di processi, non ne sa assolutamente niente.
In realtà voglio ricordare la più bella ed efficace definizione di processo penale che mi disse il mio Maestro, il prof. Giuseppe Gianzi detto Peppino, uno dei maestri indiscussi dell’avvocatura degli ultimi cento anni.
Calabrese, di Corigliano, il prof. Gianzi lasciò a 18 anni il suo paese per frequentare l’Università a Roma e non vi fece più rientro perché “precettato” sui banchi universitari dal prof. Giuliano Vassalli, suo insegnante e Maestro, che lo volle al suo studio ancora quasi studente. Allora come ora la meritocrazia esisteva; non siamo sempre disfattisti e pessimisti. Se un giovane vale oggi sarà apprezzato e stimato e avrà sicuramente il suo spazio di vita professionale.
Tornando a Gianzi lasciò il paese, la Calabria, ma non ha mai perduto l’accento tipico dei calabresi che gli ho sentito per l’ultima volta a telefono a Natale 2020 pochi giorni prima che, improvvisamente, morisse il 13 gennaio 2021.
Non ricordo l’anno, ma ricordo che stavamo percorrendo l’autostrada Napoli-Roma, allora ancora a due corsie, quando a causa di un incidente tra due-tre auto rimanemmo incolonnati per diverso tempo procedendo a passo di uomo.
Quando giungemmo nei pressi dell’incidente vedemmo due o tre vetture sul ciglio della strada con lamiere contorte, vetri rotti, olio sulla carreggiata e, se non ricordo male anche con una ambulanza con i lampeggianti in funzione e i carabinieri che facevano i rilievi del caso.
Appena passati, quando iniziammo di nuovo la marcia a velocità normale, il Professore mi disse: “vedi Giovanni il processo penale è come un incidente stradale, se non ti capita personalmente non saprai mai cosa significa veramente. Ora noi abbiamo visto quelle auto ridotte in quel modo e possiamo immaginare, ma solo immaginare, il dramma che hanno vissuto quei signori all’interno delle vetture. Ma, finché non sei tu in quell’auto; finché i vetri non ti vengono materialmente addosso; finché non senti il rumore dell’impatto con le tue orecchie; finché non senti l’odore acre del ferro che fa scintille; non potrai mai comprendere cosa significhi e come ci si sente in quelle occasioni. Il processo penale è lo stesso. Se leggi sulla stampa o vedi in televisione di un arresto, di una condanna, di un’accusa che viene mossa verso qualcuno, potrai al massimo immaginare che brutto momento quel signore stia passando, ma non potrai sapere cosa significhi essere accusato, non sapere che cosa ti succederà, quanti anni dovrai passare in carcere; per non dire dell’essere sbattuto in prima pagina sui giornali con tutto quello che questo significa anche per i familiari che subiscono conseguenze senza aver fatto niente, da innocenti”.
Il succo del discorso è che l’esperienza è acquisita solo attraverso l’esperienza. Dobbiamo vivere se vogliamo avere esperienza. Quella riflessione ci spinge non solo a teorizzare su ciò che le cose suppongono.
Non dimenticherò mai quella “lezione” di Umanità e di Giustizia che ebbi quel giorno dal mio Maestro, una lezione che non riguardava il Diritto, ma riguardava la Giustizia.
Una lezione che parlava dell’Uomo e non dell’imputato, del condannato o del detenuto.
Una lezione che seguiva un’altra che ebbi diversi anni prima da mio nonno Giovanni, filosofo e non giurista, il quale mi disse che la più bella ed efficace definizione della disperazione è quella che Camus scrive nella “peste”. Quando questo scrittore vuole descrivere lo stato d’animo del malato che entra in ospedale con i sintomi della peste che sta mietendo migliaia di morti nella città, lo paragona a quella dell’incarcerato che è “nemico del proprio passato, ansioso del suo presente e privo di futuro”.
La disperazione è, cioè, quella del prigioniero; quella di chi dovrà “subire” un processo all’esito del quale potrà restare in galera, privo della libertà chissà per quanto tempo.
Certo, immagino che ora ci sarà chi dirà “ma se quel signore ha commesso un reato è giusto che paghi”.
La pena, però, non è una retribuzione che “paghi” o “ri-paghi” qualcosa; la pene per la nostra Costituzione è rieducazione del condannato e reinserimento dello stesso nella società. In una parola la pena non è vendetta.
In realtà, però, la stupidità insiste sempre.
Ci saranno sempre persone o situazioni che agiscono in modo irresponsabile e senza tener conto delle ripercussioni delle loro azioni su sé stessi o sugli altri, ripetendo anche gli errori del passato.
Vedi in questo senso, dopo i vari Di Pietro, Travaglio, Grillo & C. (dove C non sta per company ma per una parte del corpo umano maschile) quelli che pensano di votare NO ai referendum.
Generalmente, coloro che non mostrano pietà sono quelli che hanno vissuto situazioni concrete che li hanno fatti percepire la realtà in un certo modo.
La maggior parte della gente è indulgente con sé stessa e non si considera responsabile di ciò che accade, attribuendo ad altri tutto ciò che è avverso.
Invece va ricordato che non c’è nulla di più spregevole del rispetto basato sulla paura. L’autorità basata sulla paura non è un’autorità autentica, ma la sua forza.
Concludendo, perciò, se l’uomo non riesce a conciliare giustizia e libertà, fallisce in tutto.
Libertà e giustizia devono andare di pari passo per creare una società che possa essere libera nel suo complesso, non solo per alcune materie.
Voglio concludere con un’altra frase di Camus che è il mio personale slogan per questi referendum: “Ogni volta che un uomo è incatenato, siamo incatenati a lui. La libertà deve essere per tutti o per chiunque”.
In questa frase Camus esprime la necessità per tutti di essere liberi, non solo alcuni.
Votiamo SI.