di Giuseppe Gargani
Ricorrono trenta anni dall’arresto di un signore di nome Chiesa al prossimo febbraio da parte della Procura della Repubblica di Milano che dette inizio alla lunga fase di indagini giudiziarie che vanno sotto il nome di “Tangentopoli”. Dopo il tempo trascorso è possibile dare un giudizio più obiettivo, in qualche modo storico, fuori dalle passioni e dalle polemiche di partito.
È quindi necessario interrogare l’intelligenza giuridica del paese, gli avvocati e i magistrati in una convention che organizzeremo appunto a febbraio per porci alcune domande fondamentali che riteniamo doverose per ricostruire la storia vera degli accadimenti.
Non si può non riconoscere, che, sia le indagini di “Tangentopoli” che quelle che riguardano in particolare la mafia sono state utilizzate per “fare la storia”, per inventare una “storia” addomesticata, una “storia” tutta legata alle indagini giudiziarie non verificate, date come vere e diffuse mediaticamente ad un pubblico emotivo e rancoroso.
“Mani Pulite” la storia puntava a condizionarla e a modificarla; e “mafiopoli” la storia ha puntato a ricostruirla ad uso e consumo di tesi politiche e di teoremi improvvisati senza tenere conto delle oggettive responsabilità.
Oggi però constatiamo che le sentenze di assoluzione sono in nettissima prevalenza e smentiscono i teoremi dei pubblici ministeri; e constatiamo altresì, con molto sollievo, che la sentenza della Corte D’Assise di Palermo dell’ottobre scorso ha negato la natura penale della “trattativa tra lo Stato e la mafia” che per molti anni ha avvelenato i rapporti tra le istituzioni e la magistratura, tra la politica e la stessa magistratura.
Persiste l’annosa anomalia processuale che, attraverso la narrazione mediatica, rende certe e definitive le indagini e prevalenti rispetto alla verifica del processo: è per queste ragioni che la narrazione in questi lunghi anni delle indagini giudiziarie è stata manipolata e ha disegnato una storia distorta.
Constatiamo con soddisfazione che alcuni giudici hanno fatto giustizia di tante indagini avventate e false anche se è ancora centrale e dominante la figura del pm -accusatore.
È dunque necessario e riflettere su quanto è avvenuto in questi trent’anni nei quali, si è destrutturato il sistema politico, e il tessuto democratico dei partiti e si è infangato lo Stato e tanti suoi fedeli rappresentanti.
Le indagini della procura di Milano sin dagli anni 90 sul finanziamento ai partiti, è correlato e collegato sempre e comunque a reati di corruzione che hanno dato valore assoluto alla cosiddetta “corruzione percepita”, e di conseguenza in Italia “tutto è diventato corruzione” dal malaffare all’abuso d’ufficio degli amministratori e questo ha inciso profondamente nel tessuto sociale determinando rancore e avversione ai poteri costituiti e diffidenza nei confronti della pubblica amministrazione.
Deve essere ristabilita la verità storica: questo il nostro fermo proposito.
Natalino Irti in uno splendido scritto rileva che dalla sentenze non si “attende un giudizio sull’epoca storica“ ma solo la “verità giudiziale” su fatti sostenuti da prove.
Dopo le argomentazioni e le valutazioni fatte, non è possibile, a distanza di trent’anni, ripensare “tangentopoli” come puro evento giudiziario separato dalla risonanza mediatica che l’ha accompagnato e amplificato e dalle conseguenze che ha determinato.
Possiamo oggi sostenere che il sistema democratico nel suo complesso non era corrotto ma vi erano certamente corrotti che non potevano intaccare il tessuto sano e affidabile dei partiti politici.
Il fenomeno della corruzione pur presente nel paese, come si è detto, non fu individuato per singoli casi personali e nella forma prescritta dal codice, per la pretesa della magistratura di poter correggere la politica contestando il sistema! E questa contestazione ha finito poi per catturare il consenso popolare che ha costituito il sostegno vero alle iniziative giudiziarie.
Vi è stata l’illusione di poter costruire uno Stato etico, moralistico con indiscriminate punizioni “ai cattivi” e in particolare alla “casta politica” e questo ha alimentato il rancore sociale.
Questi interrogativi che presuppongono una analisi adeguata.
Siamo in presenza di una crisi della cultura giuridica, che è alla base e al tempo stesso conseguenza della crisi politica e che risale agli anni 70 quando sì era accentuata la crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario.
E si è verificata in quel periodo un’intesa tra limitati settori della magistratura fortemente politicizzati e i partiti della sinistra, del PCI in particolare, che, attraverso l’azione dei magistrati, aveva intravisto la possibilità di sconfiggere i partiti della maggioranza non essendo riuscito a ridimensionarli attraverso il confronto elettorale e, in tal modo, conquistare il potere.
È questa la premessa culturale che ha consentito una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico, non al di sopra delle parti, ma capace di assumere in sé una sorta di arbitraggio della questione sociale e partecipare, attraverso la giurisdizione, alla tutela appunto delle ragioni delle parti sociali in antagonismo tra loro.
Si sono condannati in tal modo i partiti e in particolare la DC e il PCI e, all’interno di questi, le correnti ritenute ostili in modo da distinguere i buoni dai cattivi.
Questo consente di dire ancora oggi ad un politico accorto come Bersani che al PD hanno aderito i “democristiani buoni” i quali invece sono stati guidati solo dal trasformismo e da mere ragioni di potere!
Dobbiamo dunque porci la domanda: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così rilevante da rendere martiri alcuni servitori dello Stato e distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?!
Le indagini della procura di Milano degli anni ‘90 volevano dimostrare la contiguità della politica con la corruzione come “sistema”, e le indagini della procura di Palermo hanno voluto considerare reato “la trattativa”, confondendo la condotta per tutelare lo Stato con il suo contrario.
Sarà necessaria un’indagine politica non giudiziaria che la classe dirigente che ha governato il paese fino agli anni 90 deve pur fare per l’interesse superiore di restituire dignità e veridicità alla storia, agli avvenimenti, al ruolo che le forze politiche hanno avuto in questi anni.
L’inchiesta non deve essere fatta contro la magistratura ma deve coinvolgerla se essa ha consapevolezza della necessità di una rivoluzione culturale, se si rende conto che è necessario ristabilire un equilibrio istituzionale, individuare e precisare il ruolo del giudice e del pubblico ministero nella società moderna.
Giuseppe Gargani