Trionfa “Il berretto a sonagli” nella visione del regista siciliano, ospite del cartellone del teatro Verdi in questo week-end. Ultima replica questa sera alle ore 18
Di Olga Chieffi
“Nella nostra anima c’è un’incrinatura, e il suono che essa dà, quando si riesce a toccarla, è come quello di un vaso prezioso, trovato sepolto nel suolo, che però abbia appunto un’incrinatura” è il Kandisky “dello spirituale nell’arte” , che balena alla mente ad apertura di sipario e soprattutto all’accensione dei riflettori sul salotto di casa Fiorica. Lavia, nel suo “Berretto a sonagli”, del suo conterraneo Luigi Pirandello, di scena al teatro Verdi, lascia muovere i personaggi su di un palcoscenico pieno d’ombre e di contrasti, come l’animo dei protagonisti prigionieri della commedia, uno spazio eternamente “ammorbato”, a cominciare da poltroncine e divano incrinati, fondale pencolante e scolorito, le quinte livide e servili. La luce, elemento prezioso, vuol essere propinata avaramente come un filtro. Gabriele Lavia ha giocato in questa messa in scena dell’opera pirandelliana sul dualismo corpo e ombra. Al centro il personaggio, Ciampa, da lui stesso interpretato, costretto dalla sua genesi a nascere come simbolo della condizione scissa dell’uomo moderno e, insieme, della sua volontà di trascenderlo, testimone di un fallimento sociale e dell’ansia di superarlo, ma costretto altresì a non poter realizzare la sua aspirazione se non nella velleità di liberarsi da quell’universo negativo, il protagonista non potrà che ridursi alla riassunzione funzionale e polemica di una somma di negazioni, non potrà che porsi come figura di una informalità, maschera di un vuoto, e dunque mediazione comunicativa di un’azione apparente e di un dialogo apparente. La sua funzione sarà quella di testimoniare il dramma della “persona” nel momento stesso in cui la sua testimonianza vuol significare l’esigenza di straniare quel dramma, la commedia delle forme false nel momento medesimo in cui denunzia il bisogno di una forma vera. E il suo destino sarà di dover accettar i casi, le parole, le situazioni, le convenzioni rappresentative della “persona”, di doverne indossare le maschere, i connotati posticci, proprio al fine di rivelarne la falsità e l’arbitrarietà: di doversi incarnare nei pupi per smontarne la consistenza meccanica. Di pupi è invaso il palcoscenico: manichini a rappresentare tutte le “categorie”, i ceti sociali, a simboleggiare, con straordinaria lucidità e ricerca da parte del regista e dello scenografo, Alessandro Camera, la condizione storica della piccola borghesia italiana, nel tempo iniziale della crisi dello stato liberale e dell’avvento della società di massa, la crisi delle sue forme di coscienza, manichini che diventano naturalmente anche evocazione del coro. Lavia riesce a mostrare quanto sia importante allontanarsi dalla realtà in cui si vive e girare la corda pazza, che costituisce l’unico modo per buttare giù tutto quanto ciò che era stato costruito in precedenza, per smontare tutte le credenze altrui e dar spazio all’essenza di ogni uomo: quest’ultima non è altro che l’ombra che lo segue incessantemente e che riflette se stesso. L’uomo infatti è capace di indossare tutte le maschere che crede, ma ha da dar conto alla sua interiorità, che non potrà mai essere nascosta e rivelerà inevitabilmente l’ombra, il suo riflesso. I personaggi entrano in scena, infatti, dopo che ne è stata mostrata l’ombra sulla quinta. Parte del pubblico ha pensato ad una caricatura dei vari personaggi, da dove avrebbe dovuto nascere il riso. Ma la fedeltà non è semplice, a volte è amara e richiede responsabilità. Il dramma si legge negli spasmi di Beatrice, la moglie tradita del cavalier Fiorica, interpretata da Federica Di Martino impeccabile nell’interpretazione tanto quanto i caratteristi, Maribella Piana, nei panni di Fana, ricalcata sul ricordo della zia Carmela dello stesso Lavia, e Francesco Bonomo, che ha impersonato mirabilmente il fratello di Beatrice, eccelso danzatore di tango, nullafacente frequentatore di tabarin, Fifì La Bella. La lingua distingue i personaggi da una parte la famiglia borghese che parla in italiano, Beatrice, Fifì e Assunta La Bella (l’attrice Giovanna Guida), Beatrice Ceccherini Nina Ciampa dall’altra Ciampa, la rigattiera Saracena (interpretata da Matilde Piana), Fana e la sua saggezza popolare “cu luversu, signuruzza, si riportano gli uomini a la casuzza”, e il delegato Spanò (Mario Pietramala) che parlano in dialetto. E quando Ciampa-Lavia grida a Beatrice “scatasciassisignuruzza”, si sfoghi, faccia scoppiare la sua sete di giustizia e di vendetta, l’imperativo risuona con la sua tremenda verità in tutto il teatro. Memorabile l’interpretazione di Gabriele Lavia con l’ambiguità resa alla massima potenza, nel porre in dubbio la tresca del cavaliere Fiorica con la moglie del suo scrivano, tra livida rabbia della signora Beatrice e i suoi incontrovertibili ragionamenti. Applausi a scena aperta del pubblico per l’intera durata dello spettacolo. Si replica ancora oggi in pomeridiana, alle ore 18.