di Giovanni Falci
L’articolo di Salvatore Memoli del 21 marzo scorso, pubblicato da Le Cronache, dal titolo “La giustizia uccide le cooperative sociali”, mi ha indotto a più di una riflessione.
Premesso che l’articolo è scritto benissimo dall’abile penna del suo autore, uomo di grande cultura non solo giuridica, il contenuto, però, tradisce più di una contraddizione e finisce per suscitare più suggestioni più che analisi.
Andiamo per ordine.
L’incipit di Salvatore è che ci troviamo difronte a una “vicenda politico-giudiziaria”.
Ora delle due l’una: si tratta di un’analisi politica della vicenda “cooperative sociali” ovvero dell’analisi giudiziaria della stessa vicenda?
Non può esserci, cioè, sovrapposizione o peggio ancora una compenetrazione e un contagio tra i due termini.
Una cosa è la questione politica sottesa alla difesa e alla protezione delle classi più deboli della società e altro è lo sviluppo di un processo che si svolge con le regole dettate dalla legge.
Gli attori, nel primo caso, sono i rappresentanti del potere legislativo che svolgono il proprio compito attraverso l’emanazione delle leggi; sono i rappresentanti delle categorie dei lavoratori (sindacati) che vigilano per la tutela dei diritti dei propri iscritti e intervengono nelle contrattazioni collettive.
Gli attori, nel secondo caso, sono i magistrati e gli avvocati che svolgono il proprio compito nei Tribunali attraverso le procedure che consentono l’esercizio dei propri diritti e l’affermazione delle proprie ragioni.
Da questa semplice osservazione scaturisce la contraddizione dell’ultima frase dell’articolo: “le sentenze sono morte perché fanno riferimento ad un diritto senza anima”. Questo sarebbe vero in una visione disordinata dell’argomento perché la sentenza è morta, e lo è sicuramente, se si considera rivolta alla soluzione di un problema sociale e politico; non lo è se la si colloca nel suo naturale spazio che è quello giudiziario.
L’articolo di Salvatore (lo chiamo solo per nome per l’antica amicizia che ci lega) evoca il concetto di giustizia presente in gran parte della produzione artistica di Bob Dylan.
Gli interrogativi sul concetto di giustizia elaborati dal cantautore nell’arco della sua produzione musicale e poetica partono già nella produzione giovanile che risale all’inizio degli anni 60.
Brani come Blowin in the wind e the times they are a-Changin, finirono con l’orientare i nascenti movimenti per i diritti civili.
Egli, in quegli anni, ha affrontato i temi del perseguimento della giustizia sociale legando gli stessi alle vicende processuali risolte con discutibili sentenze influenzate da ragioni razziali.Ciò che accomuna Salvatore Memoli nel suo articolo a Bob Dylan nei pezzi di quel periodo è il germe di una tensione morale tutta percorsa dalla ricerca di regole di vita che guidino i comportamenti individuali, nell’ambito del un’etica dell’autenticità che si ponga oltre il diritto positivo, in posizione di superiorità rispetto alla legge vigente.
“Ma a che serve una fredda dichiarazione che interpreta una vicenda sociale (…)” , dice Salvatore Memoli; “to live out side the law you must be honest (…) per vivere al di fuori della legge devi essere onesto” dice Bob Dylan in Absolutely Sweet Marie.
Entrambi non indicano il rifiuto della legge, bensì il bisogno di credere in una legge superiore, al cui vaglio critico il diritto positivo deve essere costantemente sottoposto.
In ogni caso non sono d’accordo con Salvatore nel passaggio in cui afferma che il giudice “(…) contrappone un generico diritto a una concreta vicenda umana, di lotte e di presenza, che sfida tempo, luoghi, carte bollate e pretese per restituire un pezzo di pane ai lavoratori”.
Qui si apre un discorso molto lungo e articolato che si potrebbe sviluppare in più riprese e che riguarda i vari modi di vedere il giudice e in cui egli stesso si vede: giudice tecnico, politico, empatico, redentore, vendicatore.
Per ognuno di essi ci sarebbe da discutere a lungo, qui basta finire postulando il principio che la conciliazione è sempre meglio della punizione.
La soluzione migliore è non ricorrere al diritto e ai giudici e cercare una soluzione amichevole dei contrasti.
E’ un antico insegnamento che ci tramanda addirittura San Matteo nel suo Vangelo nel passo in cui fa dire a Cristo a un discepolo in lite con qualcuno “fai presto un amichevole accordo col tuo avversario, mentre sei per strada con lui: che non accada che ti metta in mano del giudice”.Andare dal Giudice è solo l’extrema ratio, per di più sintomo del fallimento della composizione del contrasto secondo le esigenze di comune convivenza.
Andarci immediatamente, senza aver tentato altre strade, è sintomo di grettezza.E, quindi, ha ragione Salvatore quando invoca: “dov’è il sindacato che difende il lavoro?“.
E’ quell’istituzione che deve difendere la storia, le lotte per l’inserimento sociale, la costruzione di un modello di civile convivenza.
I giudici sono costretti ad applicare leggi dice Salvatore, fatte da chi viene scelto dal popolo dico io; e se difende il potere e sempre meno per chi vive nella necessità la responsabilità è del popolo e dell’economia e finanza che dettano i criteri cui si ispirano i nostri legislatori.