di Gemma Criscuoli
Accontentarsi è facile: la meschina superficie della vita appare sufficiente a molti. C’è invece un altrove che deve debordare, dilagare, dissacrare. Percorso corale tra quello che non si rassegna a scomparire, “Occhi gettati” di e con Enzo Moscato impegna un generoso cast (Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena, Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca, Antonio Polito) che incarna devotamente le ossessioni dell’autore: una Napoli affollata da corpi e memorie, la contesa tra violenza e desiderio, la purezza delle creature sfruttate e dimenticate. Se è vero che ogni artista veglia sul confine continuamente attraversato dall’essere e dal nulla, Moscato, sacerdote di un rito lontano da ogni divinità e non certo per questo meno sacro, evoca presenze e crea scenari con un linguaggio corposo e cerebrale, nobile e sudicio, nutrito di influenze francesi, spagnole, tedesche, perché Napoli è babele tenera e sfrontata, da percorrere secondo mille latitudini. I fantasmi che abitano il palcoscenico sono legati a un preciso immaginario: il femminiello che vuole rivelare a tutti la sua relazione con Facc’ i San Gennaro per vendicarsi del suo abbandono; la janara che invoca “pezzient e cazz arrezzat” perché l’aiutino a legare per sempre a sé l’amante; un testimone della guerra, che assiste al dialogo impossibile tra l’ottusa aridità dei combattenti e l’innocenza di chi parla solo con Dio; Totore che incita i popolani a gettare sui “crucchi” tutto ciò che hanno “co’ sta bella leggerezza da indifesi”; la prostituta Luparella, invocata come una santa, un pezzo del passato da rivivere. È del resto vero che “Quello che esce dalla bocca di una baldracca è sempre come foglio di Vangelo”, perché gli ultimi sono troppo lontani dalle convenzioni borghesi per non essere vicini alla verità. Gli spiriti fragili e sarcastici che tornano a disturbare la cecità dei vivi rappresentano, in ogni caso, sensazioni e visioni che appartengono a qualunque luogo e tempo e proprio per questo tra loro si ritrova il poeta, “il pazzo”, “il semivivo”, che s’inoltra nelle sabbie mobili della cosiddetta normalità, che giunge a dare alle parole una forza che tenti di combattere la vacuità. Ogni incursione di Moscato nel ventre della città è anche riflessione sulle suggestioni del segno, elemento refrattario ai confini, dato che “tra scrittura e amore ci sono abissi che hanno le stesse vertigini”. Ecco allora che “gli occhi gettati” del titolo non rimandano soltanto all’antica pratica del malocchio o all’inseguimento di quel che toglie il sonno, ma narrano l’esperienza che eccede il limite, la percezione di chi sta “sussurrando l’insacro” e cerca la bellezza che è sempre “esca della crudeltà”.