Gli mancavano diverse falangi alle dita una mano, sicché quando sferrava un cazzotto il colpo si faceva micidiale, a volte letale: la mano in parte monca faceva male, molto male, specie se ti arrivava addosso sparata da un energumeno di poco sotto i due metri, asciutto, compatto e pesante, amante del full contact, killer deciso, picchiatore, delinquente sin da giovanissimo. Un caso di scuola di mancata integrazione di vecchi nuclei rom (Eboli, la sua città, ne è un’antica ‘colonia’), famiglie complicate e vite sbagliate: è l’habitat di Cosimo Marotta, alias «Cacuccio», di Eboli, morto tre giorni fa per un male incurabile che lo stava divorando da tempo. Incurabile ed inesorabile almeno quanto lo erano state le sentenze di morte eseguite nel corso degli anni, quando era una delle punte di diamante del gruppo di ebolitani guidato da Giovanni Maiale, allora a capo delle falangi anti-cutoliane a sud di Salerno.
Si sapeva che stesse male, certe voci circolano, il suo nome in un certo senso diceva ancora qualcosa a tanta gente, al netto di un mito infrantosi con il solito ‘pentimento’ che infettò mano mano tutto il clan di don Giovanniello: specie a quelli che se lo ritrovavano davanti, liberamente circolante come se avesse fatto il chierichetto per tutta la vita, dopo che l’avevano subito negli anni delle estorsioni, delle rapine alla Scarface, dei fiumi di droga prima venduti e poi ritirati dalla piazza locale per non avere ‘sbirri’ fra i piedi, del gioco d’azzardo, dei carabinieri sfidati in pubblico, dei soldi a strozzo, delle prime imprese infiltrate, delle minacce e degli inciuci più o meno politici.
Cacuccio ora è morto a 48 anni ma per molti di questi incuteva paura più ogni altro del clan, dove pure non erano angioletti: era forte fisicamente, spietato, di lui si racconta ‘svitasse’ la testa dal collo ai poveracci predestinati (è in tutte le inchieste per omicidi di camorra degli anni a cavallo tra la fine degli ’80 e gli inizi dei ’90 tra Piana del Sele, qualche puntata nell’agro per ‘servizi’ a Galasso, vedi il tentato omicidio a Mario Pepe, ex boss di Nocera) anche quando era in galera. Perché lì, Cosimo Marotta, c’ha passato almeno due terzi della sua vita. Sin da bambino si distingueva tra il Rione Paterno e il Rione Della Pace, alle spalle dell’ex stadio Massajoli (nella stessa casa dove poi è morto) per la fama di picchiatore pericolosissimo: di lì il passo fu breve, accoltellamenti, pestaggi, furti a ripetizione, le rapine, il carcere minorile della sua Eboli (dove oggi c’è l’Itacc) in cui è stato rinchiuso per anni e all’interno del quale comandava sugli stessi napoletani che in maggioranza lo popolavano. Testimoni oculari tra le vecchie guardie carcerarie hanno raccontato di come a volte Cacuccio organizzasse spedizioni punitive contro cui aveva osato metterglisi di traverso dentro le mura di quel penitenziario per minori che conosceva molto bene. Dopo anni di galera torna libero, tempo pochi mesi e il clan lo arruola: dopodiché, fu ascesa nella mala feroce, quella dei morti e delle lupare bianche e nere, dei soldi a palate, di qualche donna portata a zonzo in Ferrari. Niente eccessi, solo donne, sport, abiti firmati ed auto fino ad allora solo sognate e soprattutto niente droga: non lui, che i drogati non li sopportava (pur avendo avuto uno dei fratelli maggiori, Rocco, consumato dall’eroina, poi ucciso e gettato nel Sele) e spesso li menava di brutto in pieno centro e a qualsiasi ora. Durò tutto poco più di un lustro, furono anni terribili per il comprensorio, che difficilmente saranno dimenticati. Finché arrivò quel maggio del 1992 quando la Dda si decise a porre fine allo scandalo di un clan che da troppo tempo faceva quel che voleva. (pierre)