Lieto canto suon giulivo/empia il ciel d’ilarità./La più bella commediola/non s’è vista o si vedrà
Si è chiusa tra gli applausi, la produzione franco-svedese installata prêt-à-porter sul palcoscenico del teatro Verdi di Salerno, con il “Così fan tutte” dominata dalle voci di Miriam Albano e Lucrezia Drei. Applausi per l’orchestra giovanile Luigi Cherubini diretta da Tais Conte-Renzetti e il coro del nostro massimo preparato da Francesco Aliberti
Di Alfonso Mauro
Se è vero, per Flaubert, che a toccar idoli con mano ne vien via la doratura, ci è tuttavia a fortiori uopo riconoscer al duo Da Ponte-Mozart genio pur nella men felice opera della lor trilògica collaborazione; gli idolatrati Nozze e Don prometterebbero una terza succulenta commedia d’equivoci tutta farsesco folleggiamento, e invece la materia scenica smagrisce a confronto, e ponendosi rettilinea, posata anche musicalmente—pur se la partitura riesce in rimarchevole caratterizzazione affettiva delle personae. Riapplicar l’oro del divertimento (fondamentale a dramma giocoso pur di 200 anni) spetta dunque a direzione, regia, scenografia, costumi, massime quando alcune ugole indietreggino dalla linea di partenza dell’eccellenza. Ci è grato infatti porger palma della chiusura salernitana del celebre triduo licenzioso, oltre che alla Giovanile Cherubini irregimentata dall’ottima Conte-Renzetti, e a una fenomenale Despina Miriam Albano, all’ilare gigioneggiar innescato dal regista Alexandre, capace effervescere al riso anche il più quadrato second’atto, e a una scenografia tutta trasformazioni e sorprendente inventiva di molto con ingegno del poco. L’azione antecede l’ouverture. Una partita a carte—le stesse mostrate su drappi-tende che dividono la curiosa scena su scena: una mise en abyme dello scambio di regine, del regicidio. Despina sveste i panni di Cherubino, suggerendo una concettosa trasversalità alle serate, in ammiccamento gender-fluidity. E la cifra di trasformazione, propria della vicenda, è esplosa deliziosa e nella struttura scenico-scenica che muta in nave e altro con pochi accorgimenti, e nell’inusitata tastiera che s’arroga co-narratrice quando cita brani da Nozze e Don Giovanni, a colorito di recitativi men del consueto salernitano ad appuntamento dal barbiere. I fratelli ( Guglielmo Robert Gleadow e Ferrando, Anicio Giustiniani Zorzi)si travestono coram populo, e perdono la larva in dénouement progressivo del patto scenico, stiracchiato ma non tradito com’è pessimo uso altrove. Il medico-Despina è buffo macellaio, la calamita dilettoso apparato steampunk che manda in tilt le luci. Tanta machina è forse frettolosa a giocarsi assi nel primo atto, e tradisce un secondo (se musicalmente prodigioso ma men fuochi-artificio) non mirabolante e dunque a discapito di chi da profano intenda scollinar le giocose tre ore viennesi. In soccorso la Albano che per verve e voce s’impone su tutti, Fiordiligi Lucrezia Drei parimenti applaudita, con a fianco la Dorabella di Josè Maria Lo Monaco, e la Conte-Renzetti cui con i Giovani è quasi impeccabile riuscito ritrarre ambo gli analitici volti musicali del salisburghese, ut ita dixerim, proto-psicanalista. Ma, più di tutto, la vision d’insieme, forse sfuggita a chi non ha assistito a due opere su tre (Don Giovanni rimandato in solidarietà ad Ischia), di una pan-produzione prêt-à-porter che s’inarca metatestuale lungo il dorso di mise en scène convincente se non troppo sopra le righe; le indicazioni insite nel libretto (poco intricato) sono seguite, o, quando altrimenti poste, col belletto quasi metateatrale strizzante occhio a melomani attenti. Felice intuizione calare il sipario moraleggiante su rissa tra i fratelli sposi cornuti nel 69 giocato da questo chiudersi sciocchino di ‘700 e pedissequamente evocato in una delle carte-tende.
Andirivieni di sorte al gioco come in amore—o come nell’ansia di qualità di produzioni d’opera; qui abbiamo vinto nonostante i difetti, grazie al godibile frutto di collaborazione franco-svedese girovaga la quale, caso raro, ha letto, compreso, reinterpretato il libretto. 1789-90, e se la filosofia cinica di Don Alfonso (Christian Federici) è da uom di pace che non fa duelli che a mensa, altrove monarchi perdono teste dai patiboli, e Despina straccia la carta-tenda del re; e la rivoluzione industriale è parodiata fantasmagorica nella calamita. Quando la materia in actu libra così, da sublimar da solido all’aereo, buona esecuzione musicale e inventiva di teatro urge ridian peso alla rappresentazione; e pur se in qualche ombra, la domenica mozartiana ha brillato ne’ “brindis replicati al dio d’amor” et odii.