Convegno su Puccini al Conservatorio - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Convegno su Puccini al Conservatorio

Convegno su Puccini al Conservatorio

Di Francesco Aliberti

Appuntamento all’insegna del dibattito, con interventi dei ragazzi in dialogo con docenti e musicologi, quello di venerdì 26 aprile presso il Conservatorio Martucci di Salerno. Come sottolinea il direttore Fulvio Artiano, le occasioni di approfondimento scientifico promosse dal Dipartimento di Discipline Musicali, a cura di Nunzia de Falco e Francesca Guerrasio, orientano l’attività didattica del Conservatorio verso ambite frontiere universitarie, incrociando tematiche strettamente musicologiche con la riflessione storico-filosofica e il racconto di esperienze professionali da parte di musicisti, direttori, registi. In tale sinergico quadro di intersezioni di ambiti e competenze, si rivela essenziale il rapporto tra il mondo della scuola e la vitalità della realtà professionale salernitana, eminentemente rappresentata dall’attività del Teatro Verdi, che in questi giorni è impegnato nella produzione della Bohème di Giacomo Puccini. Il titolo offre, per la sua narrazione dinamica e giovanile, molti spunti ai ragazzi in ascolto degli adulti: particolarmente preziosa è stata la presenza di Riccardo Canessa, che, anche attraverso il racconto della sua feconda esperienza di regista e il riferimento agli aneddoti che sono il sale di una poliedrica vita teatrale, ha esibito un quadro generale sul rapporto tra musica e scena nelle opere pucciniane. Ernesto Pulignano, forte della propria esperienza di pianista accompagnatore, ha riflettuto sulla storica contrapposizione tra le due Bohème di Puccini e Leoncavallo, mentre Silvana Noschese ha impreziosito la giornata con l’intervento del coro di voci bianche, insistendo sulla funzionalità drammaturgica dei piccoli cantori che nel secondo atto si comportano da autentici personaggi, rappresentando nella maniera più schietta la gioia del Natale, simbolo del grande tema che attraversa tutta l’opera, la spensieratezza giovanile che non dura pur accompagnando tutti noi nel ricordo, per sempre, con nostalgica maliconia. Hanno ragione Cinzia di Matteo e Rosanna di Giuseppe ad insistere sulla modernità della Bohème, a dispetto delle critiche subite dall’opera per la sua tendenza ad assecondare il gusto del pubblico piccolo-borghese degli anni in cui fu scritta. “Quant’è bella giovinezza/ che si fugge tuttavia!/ Chi vuole esser lieto, sia,/di doman non c’è certezza”. In questi celebri versi del 1490, manifesto di una sensibilità umanistica velata di malinconico realismo, Lorenzo il Magnifico coglie con nostalgia la fragilità della nostra vita. Il trionfo di Bacco e Arianna è un manifesto del razionalismo morale, un omaggio al piacere misurato e all’amore, nell’ombra dell’angoscia per il tempo che fugge. A distanza di cinquecento anni, Puccini richiama il medesimo senso di angoscia, attraverso il racconto di vite genuine, baciate da una normalità preziosa, in cui le cose che contano sono la compagnia, l’amicizia, la spensieratezza, al di là delle difficoltà economiche; vite energiche, in cui l’orizzonte aperto al futuro ha più forza delle incertezze del presente e invita a non arrendersi mai e a tirare avanti; vite dotate di sensibilità, in cui si riconoscono le ricchezze della vita in “quelle cose che han nome poesia”. Le arti e la filosofia coltivate dai personaggi maschili non costituiscono un passatempo o un superficiale ornamento della loro vita: l’artista bohémien è un creativo che conduce un’esistenza anticonformista, pagando con l’emarginazione la difesa della sua libertà, abbracciando uno stile di vita alternativo in cui il sogno e l’amore, e non il successo e il denaro, alimentano una vita visionaria, che disprezza la becera concretezza della mentalità borghese. Puccini apre coraggiosamente uno squarcio sul Diverso, sull’Altro, su tutto ciò che non può essere imbrigliato dalle convenzioni. E non è un caso, dunque, che l’universo femminile possa godere di uno spazio privilegiato nella Bohème: caratterizzato da pruriti di modernismo insidiati da un perbenismo ancora troppo invadente, esso è rappresentato da due donne, Mimì e Musetta, che amano senza annullare la propria personalità, tenendo in scacco i rispettivi fidanzati e preservando nel cuore sentimenti per loro anche se le contingenze della vita impongono un distacco. Sono donne che vivono una spiritualità personale: Mimì non va sempre a messa, ma prega assai il Signore; Musetta alla fine dell’opera si rivolge alla Madonna per ottenere la guarigione di Mimì. Sono donne che amano la vita e non disdegnano lo svago non convenzionale del Café Momus in compagnia di uomini, e sanno dare un significato alle cose: Musetta dona a Mimì un manicotto; Mimi conserva gelosamente la cuffietta, che diventa il leitmotiv di un amore che mai si esaurisce pur nelle sue fasi alterne. In uno scenario di tale intensità espressiva, ciò che è considerato immorale passa in secondo piano: ciò che conta è la vita – ed è questo il senso del verismo pucciniano –, il saper essere felici con poco, il credere nell’amore anche dopo cocenti delusioni. La bohème segna il superamento del moralismo borghese di fine Ottocento e un’apertura verso sentimenti contemporanei non radicalizzati in maniera estenuante e decadente, ma semplicemente ‘visti’ per ciò che sono: un fluire di energia in cui la morte trova il suo spazio, seppur con estrema drammaticità, in quanto parte integrante della vita. Il tema della contraddizione è già annunciato, ma la prospettiva di fede capace di affrontarlo, presente in altre opere quali Madama Butterfly, La fanciulla del West e Suor Angelica, non è ancora delineata, per quanto sia già evidente l’incapacità del pensiero filosofico di far fronte alla morte. La Filosofia dà opportunamente ragione di quanto accade nel mondo, ma a volte le parole non sono necessarie, e forse inopportune. Ed è la Musica (Schaunard) a rimproverare la Filosofia (Colline), a piegarne quel pizzico di presunzione, affinché si faccia da parte per onorare il mistero della morte nell’unico modo possibile, il silenzio: “Filosofo, ragioni!”. Mimì è una donna completa: forte, per far fronte alla debolezza di Rodolfo; innamorata, senza rinunciare alla volontà di essere indipendente; sensuale, con quel tocco di leggerezza che persino in punto di morte non la rende patetica. Insomma, assurge a icona di femminilità e umanità, mostrando a noi tutti il coraggio di vivere e scegliere, di essere eroi nella vita attraverso le piccole azioni quotidiane. Per questo suo guardare alla vita che “si fugge tuttavia”, che passa con disincanto e ci sfiora a volte illudendoci, La bohème può essere a pieno titolo considerata un’opera del Novecento: alla stessa maniera della musica di Mahler, attraversata da relitti e squarci di un passato che non può più appartenerci, rappresenta l’addio al mondo che è stato, alla giovinezza che non tornerà più. E la commozione, che ancora oggi proviamo ad assistere a quest’opera, non è tanto per la morte di Mimì, ma per quello che giorno dopo giorno perdiamo dentro di noi. Resta un interrogativo… e la risposta? Custodita nel nostro cuore. Mimì è morta davvero? O forse la sua memoria permane, duratura presenza – “poca eternità” cantava Renato Zero – nel vissuto di chi continua il proprio viaggio terreno, simbolo eterno di una gioventù che non basta mai.

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