Ferdinando Cappuccio
Quando si avvicina il 21 settembre -giorno in cui cade la festività di San Matteo,i salernitani oltre ad aspettare le funzioni religiose ( messa,processione…)e quelle civili (fuochi,spettacoli..) si predispongono a gustare prelibatezze tipiche. Così nelle famiglie o nei ristoranti si cucinano spaghetti con i lupini,parmigiane di melanzana,peperoni imbottiti,triglie fritte etante altre leccornie.Laddove poi l’onomastico di qualche familiare coincide con la festa,si concepisce il pranzo familiare legato al gusto del festeggiato,cucinando le pietanze a lui più gradite. A ben vedere però i piatti descritti ormai si gustano anche al di fuori della festa patronale. L’uva sanginella,ormai introvabile,era la regina della festa dell’uva che si svolgeva a Salerno a settembre per cui non era limitata al consumo alla sola festività patronale. La santarosa poi oggi si trova sempre in tutte le pasticcerie . Insomma a ben vedere l’unica vera specialità tipica della festa è la milza (“meveza”). L’utilizzo delle interiora degli animali è una caratteristica comune a moltissime zone d’Italia..La trippa,la coda,i mbruglitielli o muglitielli,il soffritto,la ndoglia,sono presenti in manuali di cucina regionali. Il motivo nasce dalla povertà esistente in alcune classi sociali nei secoli scorsi,che si dovevano accontentare di cio che avanzava dall’utilizzo delle carni nelle famiglie agiate.Cio’ valeva per i contadini,per gli allevatori e perfino per quelli che macellavano. Ma perché a Salerno si mangia la milza ed in altre parti no almeno con la cottura abituale a cui siamo abituati? Il panino con la milza,che è il modo giusto di gustarla pare sia stato frutto degli ebrei presenti nei pressi di S.Lucia,che macellando le carni (“vicolo delle chianche “)e non potendo trarne profitto ottenevano le interiora come compenso,le cucinavano,e le vendevano nei panini .Il modo di cottura poi era determinato dalla necessità di conservazione che l’aceto consente(basti pensare alla scapece). Gli stessi ebrei forse hanno trasmesso la meveza a Cava,dove regna incontrastato piatto nella festa di Castello. Oggi come ieri,soprattutto nei vicoli della ns città, è bello,almeno per me ,sentire in questi giorni il forte odore di aceto che impregna l’aria e che mi porta con la mente al secolo scorso quando aspettavo con un panino in mano i fuochi o la banda. A questo punto questo mio intervento potrebbe sembrare ovvio e superfluo,ma sono stato stimolato a scriverlo dal buon direttore Tommaso,al quale ho parlato di una esperienza fatta qualche sera fa,in una cena degli amici dell’arco Catalano.Organizzando il menù con Igino e gli altri componenti del consiglio direttivo della mia associazione,mi è tornata alla mente una chiacchierata di tanti anni fa avuta con il mio amico Nino Colucci.Il noto avvocato,politico di chiaro successo,mi aveva sottolineato che a Vietri e Cetara aveva provato la “seccia a’ meveza”.Credendo ad uno sfotto’ amichevole tra consiglieri comunali non avevo approfondito il piatto.Con Matteo Ragone,patron del ristorante del golfo,abbiamo fatto una ricerca e ci siamo resi conto che valeva la pena provare la ricetta. Ebbene,anche per merito del cuoco,il piatto servito a numerosi commensali è stato graditissimo. Nasce anche esso dalla povertà. Gli amici della costa limitrofa a Salerno dovevano sfruttare le loro risorse e mutuando il modo di cottura della meveza la sostituirono con la seppia. E’ un piatto che credo sia importantissimo per gli anni a seguire e per i futuri San Matteo.Coloro i quali,specie i giovani,hanno remore a gustare interiora possono avvicinarsi al piatto iconico provando la seppia,con un gusto molto vicino al piatto ooriginale.Ho pregato Matteo di darvi la ricetta e vi invito a realizzare il piatto.





