Rino Mele
Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) 9 marzo 2020. Bisogna starsene a casa. E chi non ha casa? E chi, invece, pur avendola, vive in essa- insieme ad altre consapevoli vittime – contraddizioni così atroci che solo un frequente allontanarsene riesce ad alleviarle? E c’è poi chi è già costretto in spazi-casa, i detenuti nelle carceri, negli ospedali gli ammalati: essi sanno che in quell’ostile stare chiusi, reclusi, in quel “dentro”, finiranno col costruirsi anche “l’esterno” che non hanno, in una condizione che oscilla tra proiezione immaginaria e compensazione: ad esempio, poter muoversi nel corridoio, in corsia (ospedale o carcere) è già in qualche modo uno stare fuori, assaporare una certa libertà rispetto a chi invece deve rimanere in cella, o nella stretta piccola stanza assegnategli. Nelle antiche esplosioni epidemiche, della peste ad esempio, il meccanismo d’intervento della comunità, era quello d’isolare con estrema e brutale violenza l’appestato, di escluderlo da ogni pur minima comunicazione sociale. Si è arrivati a murare in casa i suoi familiari. In modo speculare e contrario alla nostre attuali disposizioni sanitarie: mentre oggi consigliamo/ordiniamo di non uscire di casa per non subire il contagio, allora (ed è proprio il gioco della simmetria capovolta dello specchio) chiudevano in casa, fino a seppellirli in essa, i familiari dell’appestato perché non diffondessero il contagio. Scrivono William Naphy e Andrew Spicer (“La peste in Europa”, edizioni Il mulino 2004): “Oltre alla negazione di una normale sepoltura, un’altra devastante conseguenza in caso di accertamento dell’infezione era la messa in quarantena dell’intera famiglia. Nelle prime fasi di un’epidemia le famiglie infette potevano essere sigillate nelle loro case”. Oppure, ma fu un passo avanti ma non era meno oltraggioso, dopo che il malato era stato trasferito nel lazzaretto i familiari venivano trasferiti a forza in “edifici appositi o residenze temporanee al di fuori delle mura e vicine al lazzaretto”. Ma, torniamo alla domanda iniziale: e chi non ha una casa? Chi ha abitato solo la fredda povertà del suo corpo, in questi lunghi giorni, in che modo avrebbe potuto ottemperare al Decreto del Presidente? Secondo l’Istat, i senzatetto in Italia sono 50.000, la maggior parte nelle due principali città, a Milano e a Roma. In Europa, poi, i senzatetto (homeless) sono più di 700.000: se stessero vicini l’uno all’altro formerebbero una città di cartone grande come Firenze e Bologna messe insieme. In quelle grandi scatole da imballaggio diventano metafora della loro condizione, merce avariabile, in ogni caso scaduta: essi sono più miserevoli di quei poveri che hanno casa in un rudere con il fragile tetto di lamiere. Questi poveri senza casa sono così sottili che non puoi accorgerti che esistano somigliano all’imbastitura che, nel realizzarsi di un vestito, scompare: un filo che tiri e va via. Ci sono, ma non hanno peso, abitano ai margini dei nostri sensi di colpa, senza gridare, per non disturbare: a volte dicono qualcosa ma viene fuori solo un furioso squittire che si smorza, e noi pensiamo siano uccelli sugli alberi, sempre più radi. Come mai, negli infiniti, ossessivi numeri che ci sono stati quotidianamente dati (dalla Protezione civile, Ministero dell’Interno e altre istituzioni) nessuno ha mai detto quanti senzatetto abbiano trovato una sistemazione all’interno del vasto problema epidemico? Cosa può fare chi non ha la casa, sognare la rivoluzione, o gridare la parola “Dio” fino a stancarsene, o tentare di trasformarsi in uno come noi, minuscoli impauriti borghesi che dormono al caldo e mangiano cibi ben cotti. Poi, un giorno, alla fine di un viale udrà una voce venir fuori da una grande scatola di cartone, la voce è gioiosa e come un pianto, gli dice “Fermati sono tuo padre”, lui si volta verso la grande scatola di cartone e la vede vuota. Con l’epidemia – ogni volta che, dopo essercene dimenticati, appare – il concetto di casa esce fuori dai modelli retorici, dell’enfasi, l’amoroso castello che ti protegge col suo munito fossato, e si mostra nella sua nuda realtà di luogo chiuso, a volte con piccolissime finestre che è inutile aprire. Abbiamo difficoltà a capire che i senzacasa esistono davvero e sono come noi, La differenza sta nell’esito del loro sonno, nelle notti gelide, per terra sotto un androne, sigillati nei propri panni, sognano forse di scaldarsi mentre, per riderne, un vigliacco dà ad essi fuoco. Nel 1794 Xavier de Maistre pubblica “Viaggio intorno alla mia stanza” e, all’inizio, nello spiegare il gioco letterario del suo viaggio (che sarà tradotto da Paolina, sorella di Leopardi) da perfetto insensibile borghese si chiede: “Esiste un essere tanto sventurato, tanto derelitto da non avere un buco dove possa appartarsi e nascondersi da tutti? Tutto qui, quello che serve per il viaggio”. Lui quando scriveva i quarantadue capitoli del suo libro era in Savoia, a pochi chilometri dalla Francia, immersa nell’ estrema esaltazione della Ragione e nel parossismo del delirio etico della Rivoluzione Francese: l’anno prima a Parigi, a Place de la Concordie era stata staccata la testa dal corpo del re Luigi XVI, a gennaio e della regina, a ottobre.