“Scusami, scusami, scusami per il disturbo che ti ho arrecato”. E ancora: “Grazie, grazie e ancora grazie per averti conosciuto nella mia vita”. Inizio così questo mio “racconto” del professor Domenico De Masi. Lo chiamavo Mimì e lui diceva sempre che ero l’unico autorizzato a poterlo chiamare in modo così affettuoso. Il chiedermi scusa e il dirmi grazie sono gli ultimi due segni forti della sua personalità. Domenica 27 agosto eravamo insieme con la sua adorata moglie Susy nella piazza di Ravello. Era tradizione che dopo il festival andassi a trovarlo per trascorrere un po’ di ore in questo incantevole posto che per lui era casa nella Costiera Amalfitana. Non so perché, non me lo chiedo e quindi non lo voglio sapere ma avevo deciso stavolta di registrare con il mio smartphone alcune riflessioni sui temi attuali della politica, della cultura, del suo rapporto con Ravello e anche della nostra amicizia, ringraziarlo ancora una volta per avermi dato un’esclusività a Roma nel mese di luglio: incontrare con lui per circa due ore in privato il presidente del Brasile Lula. Un video di oltre 50 minuti che custodisco gelosamente.
Il 15 agosto ha scoperto un terribile male. Non me l’ha voluto dire nonostante le nostre telefonate. Ha scritto al mio assistente Davide Russo di leggermi un suo messaggio. Poi, in sole tre settimane, tutto è precipitato. Quando ci siamo salutati al termine del nostro incontro a Ravello, lui mi ha abbracciato come non mai. Interminabili secondi. Dicendomi due cose all’orecchio, molto emozionato: “Scusami più volte per il disturbo che ti ho arrecato e grazie più volte per averti conosciuto nella mia vita”. Quando sono andato via non mi sono girato ma ho avuto la sensazione che quell’interminabile abbraccio fosse una sua forte ed affettuosa comunicazione nei miei riguardi.
Lezioni di vita. Segni di un’amicizia senza confini, nata oltre 40 anni fa nel modo più logico per lui: capire, conoscere, verificare prima di parlare o scrivere. Si presenta a Giffoni con una Vespa da Sant’Agata de’ Goti dove lui abitava. La curiosità era proprio il suo genio. Voleva capire che cosa stava succedendo a Giffoni. Ripeto: parliamo di 40 anni fa, fine anni ’70. Ero molto timido di fronte alla sua statura ma sorriso, lucidità, propensione all’ascolto, capacità straordinaria di dialogo, incisività mi misero nelle condizioni di amarlo dal primo momento. Non sta a me parlare del professore di sociologia, di scienze della comunicazione dell’Università Sapienza di Roma e prima ancora dell’Università di Napoli e prima ancora di Salerno e altre università, poi di tutto il suo sguardo critico, prospettico, analitico dei fatti quotidiani e di quelli strutturali della società. Ogni volta mi donava una delle sue pubblicazioni, una vasta letteratura di sociologia con le migliori case editrici italiane. A Roma, nei nostri incontri, era un fiume in piena, con la sua adorabile moglie Susy non sempre presente perché ci lasciava liberi di volare. E’ lì, tra un bicchiere di vino, mezzo sigaro che a differenza mia godeva lentamente, accendendolo più volte con un accendino antivento quasi fiamma ossidrica con i quali giocavamo a fare i “pistolero” (più di uno degli accendini erano della stessa marca che io gli regalavo e che portava sempre appresso).
Mi invitava a convegni, presentare ovunque con orgoglio quello che per lui è e resta il “caso Giffoni”. Le sue apparizioni televisive, quando gli davano lo spazio giusto, erano sempre incisive, documentate e aggrediva le ipocrisie senza mai offendere. Quante volte mi sono fatto spiegare “La scienza del buon vivere”. E lui: “I greci, i latini, i filosofi ci hanno già detto migliaia di anni fa come vivere”. Ad ogni domanda, ma più che domanda, ad ogni curiosità apriva porte, finestre, spalancava portoni senza però mai perdersi. Un percorso non un labirinto. A Ravello ha dedicato la sua vita. Ha lottato e vinto per la costruzione dell’Auditorium firmato gratuitamente da Oscar Niemeyer, tra i più grandi al mondo. E’ stato presidente per poco del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano. Si arrese di fronte alla difficoltà di mettere a ragionare 150 sindaci di piccoli comuni. Ha creato la scuola di formazione per la gestione delle attività e dei beni culturali a Ravello, i cui allievi ho ricevuto più volte durante il festival perché lui ci teneva a far vedere come l’esperienza Giffoni nutriva l’economia locale. Lui costruiva ponti, incurante che gli altri la notte li distruggessero. Creava relazioni. Non andava alla ricerca del consenso ma era consapevole che le sue idee, a volte incomprensibili o ingestibili, dovevano creare quella rivoluzione capace di portare poi soluzioni. Domenico De Masi parlava oggi per un domani di almeno venti anni.
Cosa manca oggi in questo mio breve racconto che meriterebbe tutt’altro tempo e spazio per ricordare parte di questi 40 anni vissuti insieme? Mancano alcune parole importanti. La prima è onestà. Lui è stato un uomo onesto e questo gli dava la possibilità di essere critico, analitico, non assoggettato ai sistemi, libero ancor di più di non far parte di lobby di qualsiasi genere. Quante volte gli ho chiesto: “Perché mi vuoi così bene?”. La risposta era nei suoi occhi lucidi, carichi d’energia e nel suo inconfondibile sorriso. Qui non aggiungo niente perché le sue risposte che conosco bene fanno parte della mia vita e di ciò di cui sono consapevole di aver fatto nella mia vita. E’ un tesoro prezioso che conserverò per me, perché mi ha guidato nel cammino difficile, a volte dei contrasti e delle contraddizioni dei luoghi del Sud, di questa mania persecutoria che a volte ha il Sud di voler distruggere ciò che di buono produce.