Aliberti vince a Scafati contro la politica che vuole diventare giustizia - Le Cronache
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Aliberti vince a Scafati contro la politica che vuole diventare giustizia

Aliberti vince a Scafati contro la politica che vuole diventare giustizia

di Antonio Manzo

E se non si vincono più le elezioni, predicando solo le cosiddette “questioni morali”, in un tempo neppure troppo lontano, affidate  ai soliti impostori della morale a pagamento? E se fosse un indizio consistente per spiegare il flop elettorale della sinistra nel voto amministrativo al di là delle vele gonfie spinte dal vento di destra al governo? Sia chiaro, i toni politico-morali nelle campagne elettorali delle elezioni amministrative sono indispensabili per la denuncia politica nella lotta al malaffare, al malgoverno di clientele e sottoboschi oscuri così diffusi e resistenti soprattutto nei comuni meridionali. Ma quando la politica aspira a diventare diventa giustizia la sconfitta è dietro l’angolo, particolarmente per la sinistra che ha abbandonato da tempo la via maestra del  garantismo penale per imboccare la traversa sbrigativa della presunta cancellazione dii imbrogli spesso scandalosi invocando l’intervento giudiziario in sostituzione del suo ruolo di indirizzo e di controllo.

  Un esempio lampante arriva dal risultato elettorale del voto amministrativo di Scafati dove Il candidato sindaco, l’imputato in attesa di giudizio Pasquale Aliberti, che per ben tre volte è stato eletto sindaco con un chiaro plebiscito.E’ stato arrestato per scambio elettorale politico-mafioso, finito agli arresti domiciliari, poi in carcere, poi ancora con divieto di dimora a Scafati. In pratica, una lunga storia di carcerazione preventiva, di scioglimento del consiglio comunale, di un processo mediatico giudiziario istruito da quello che Aliberti denunzia come un clan di odio che riusciva a indirizzare accuse, creare falsi testimoni, avversari politici delatori costanti per magistrati, poliziotti, giornalisti con presunte campagne diffamatorie ben orchestrate.  Aliberti ha vinto contro un rispettabile candidato al ballottaggio con un cognome che è nella storia di Scafati, Corrado Scarlato. Ha vinto per aver sconfitto la via giudiziaria della politica che lo tiene ancora in ostaggio con il processo Sarrastra, come imputato di aver avuto rapporti con il mondo criminale scafatese fino ad ipotizzare nel contesto accusatorio un presunto rapporto con i Casalesi a causa dell’accusa poi scioltasi nell’assoluzione con formula piena per l’ex segretaria comunale colpevole di esser nata a Casapesenna, regno del boss Pasquale Zagaria.

Ad ottobre prossimo è prevista la sentenza del processo che vede imputato Aliberti, neo sindaco. A distanza di ben 15 anni dall’arresto, Aliberti aspetta la sentenza. Così come ha voluto essere processato l’ex sindaco di Battipaglia, Giannino Santomauro, per non aver voluto beneficiare della prescrizione. Cioè ha voluto il processo. Lui fu arrestato  nel maggio del 2013 e fu sciolto il consiglio comunale per infiltrazione camorristiche nella città sfregiata dal cemento e e dove da cinquant’anni si promette, con l’accattivante sorriso populista, un piano regolatore.

Altro sindaco disarcionato da un’inchiesta giudiziaria, è Massimo Cariello di Eboli agli arresti domiciliari per mesi, dopo l’arresto ordinato il giorno dopo la proclamazione della vittoria elettorale con l’80 per cento dei consensi. Fu arrestato per malagestione amministrativa condita da intercettazioni trojan, guidate anche da un’industriale coinvolto in altre inchieste di camorra e utilizzato come agente provocatore.

Deve essere proprio una maledizione della giustizia italiana. Ogni qualvolta si parla di mafia e di camorra  il primo tentativo dei moralisti – o dei demagoghi o dei manettari – è quello di cancellare il sacrosanto principio della prova. Non si spiegherebbe altrimenti la predilezione delle procure più politicizzate per il concorso esterno in associazioni mafiose. La formulazione molto vaga del reato consente a molti pubblici ministeri non tanto di applicare la legge quanto di interpretarla, come spesso avviene nella via giudiziaria che sostituisce la politica. E l’interpretazione, si sa, è per l’antimafia chiodata il più efficace strumento di interferenza politica.

 Ormai è certo: la definizione del reato di voto di scambio non prevede una rigida e rigorosa cultura della prova ed è grasso che cola per un magistrato che voglia andare al di là del proprio ruolo e scambiare “sentito dire” per qualcosa di corposo e criminalizzante.

 Da un lato c’è il fronte giustizialista per il quale è sufficiente il sospetto di una semplice promessa elettorale per inchiodare un uomo politico all’ipotesi del voto mafioso. Dall’altro lato c’è il fronte garantista che giudica la norma incostituzionale: se non è provata la consapevolezza, da parte dell’uomo politico, di avere avviato uno scambio con i mafiosi e camorristi e non c’è la prova che lo scambio sia poi effettivamente avvenuto, tutto diventa vago e impalpabile, dunque discrezionale. E il caso dell’orchestrata accusa contro Aliberti fa scuola perché basta il “sentito dire” di un boss su una promessa, fatta chissà quando e chissà dove, per attivare una procura e mettere in moto un’inchiesta che deve demolire una legittima carriera o una legittima ambizione. A patto che esse vengano coltivate con il sistema di legalità e senza la spesso sfocata ma esistente volontà di paralizzare ogni attività politica, soprattutto al sud. Allora l’incapacità politica di selezionare una credibile classe dirigente (è finita anche le più selettiva stagione dei sindaci) spesso si affida ai metodi di certa magistratura italiana che arriva sempre in ritardo sui sistemi criminali spesso anche per una oggettiva incapacità investigativa. Al di là delle vaghezze dell’ipotesi di reato politico mafioso, senza assegnare concretezza allo scambio di favori tra la politica e le cosche, c’è solo il sospetto della via giustizialista in politica. Ma ogni tentativo di riforma del 416 ter del codice penale è naufragato al Senato nel 2013 per incertezze destabilizzante e concorrenziali, in particolare di Pd e M5s, finendo per dare fiato e spazio al trombonismo moralista introducendo l’inafferrabilità della promessa: “Chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante ecc. ecc.”.

Una norma, così come venuta fuori dal Senato nel 2013, non serviva a combattere né la corruzione né le collusioni tra mafia e politica. Regalando ai mafiosi e ai camorristi un potere in più, quello di sputtanare ed eliminare per via giudiziaria  qualche uomo politico non gradito; e ai magistrati un più agile strumento di interferenza nella vita dei partiti e delle istituzioni. E’  la lezione che arriva dal voto di Scafati, plebiscitario per l’imputato in attesa di giudizio.