
di Vito Pinto
Lungi dall’essere la rappresentazione di un luogo e dei suoi contorni umani, la restanza è una condizione mentale, intima, che appartiene esclusivamente alla sfera personale di ogni individuo. E non vi è soggetto che, in un mondo convulso e ricco di trasformazioni, nonché di possibilità di spostamento, non abbia almeno una volta, forse inconsciamente, sentito dentro di sé il bisogno di una restanza, di un rimanere fermo dov’è pur anelando ad una erranza, ad un viaggiare fisico. Non a caso l’Accademia della Crusca, per questo neologismo entrato da qualche anno nel linguaggio più o meno corrente, annota: «Atteggiamento di chi, nonostante le difficoltà e sulla spinta del desiderio, resta nella propria terra d’origine, con intenti propositivi e iniziative di rinnovamento. “La restanza”, l’essere rimasto, non è un atto di debolezza, né un atto di coraggio, ma è un dato di fatto, una condizione. Può diventare un modo di essere, una vocazione, se vissuto senza sudditanza, senza soggezione, ma anche senza boria, senza compiacimento, senza angustie e chiusure». E sovviene alla mente Giuseppe Spagnuolo morto a gennaio dello scorso anno, dopo oltre vent’anni di “restanza” nella sua Roscigno vecchia. Guardiano della Storia aveva scelto liberamente (e Libero amava farsi chiamare) di vivere la sua “permanenza” nella vecchia casa affacciata sulla piccola piazza dove l’acqua ancora zampillava dall’antica fontana. Un esempio, quello di Spagnuolo, non isolato così che una “restanza” diffusa si incontra dove neanche si potrebbe immaginare. Non hanno avuto dubbi gli abitanti di Amatrice, Arquata, Pescara del Tronto e degli altri paesi, come quelli dell’Irpinia e del salernitano, distrutti e cancellati da un terremoto. Pur tra sussurri ed eloquenti, dolorosi silenzi, tutti hanno avuto la ferma intenzione di «restare» nei luoghi in cui sono nati e vissuti, anche se ridotti in macerie, e di non spostarsi altrove, nemmeno in posti vicini. Era il 2021 quando al Torino Film Festival fu presentato il documentario La restanza, che la regista Alessandra Coppola, di nascita napoletana, dedicò ad alcuni giovani salentini, di Castiglione d’Otranto che avevano rifiutato la fuga come soluzione ai problemi economici e, recuperando colture di grani antichi, avevano sviluppato una nuova economia collettiva in piccola scala, trasformando Castiglione nel “paese della restanza”. Una scelta di libertà (restare e non partire) che diventa anche fede nelle capacità proprie e collettive nonché nella generosità di Madre Natura o, per chi crede, della Provvidenza. Non a caso un documento del Dicastero Vaticano per le Comunicazioni Sociali spiegava, già nel lontano 2013, che «Nelle congiunture problematiche, resta ciò che regge all’urto del cambiamento. Il che non ha un valore minimale, ma esprime appunto la linea di forza su cui stare, per non essere sopraffatti». E la “restanza” diventa forza di Fede nell’insegnamento della Chiesa cattolica. D’altra parte «Partire e restare sono i due poli della storia dell’umanità – scrive Vito Teti nel saggio “La restanza” edito da Einaudi -. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di sé stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente». E aggiunge: «Perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine». Concetti che appartengono, quindi, alla sola sfera intima, alla sensibilità di ogni individuo e che in alcuni casi si fa arte. Non vi è stato, infatti, artista, pittore, scrittore, poeta che non abbia messo il suo intelletto al servizio della “restanza” di quel sentimento avvertito di lontananza dai propri luoghi di nascita e d’infanzia, e che non si sono mai intimamente abbandonati anche se fisicamente si va in territori altrui. E a volte una foto, se mai sbiadita ma ferma nella memoria, di una valigia chiusa rappresenta un viaggio mai compiuto, ma anche un passato che potrebbe ancora pesare nell’immaginario personale o collettivo. Una memoria che, ad iniziativa di Costabile Guariglia, diventa “poetica dell’altrove” e si fa mostra, “uno sguardo intimo nei rapporti tra arte ed essere umano”. Guariglia mette insieme, negli spazi de “La Fornace” di Agropoli, artisti di varie arti per un evento «dedicato al tema dello spaesamento – scrive Guariglia – nel senso più ampio del termine: l’umanità, i paesaggi, le architetture e i borghi fanno parte ancora oggi del nostro spazio visivo e mentale nel nostro territorio e sono il punto di partenza per la costruzione e la realizzazione dell’opera d’arte come atto di resistenza». Tema sottile e affascinante, anzi immaginifico su quegli agglomerati urbani, piccoli o medi che dir si voglia, che vengono definiti borghi, paesi, contrade, insieme di abitazioni sempre più prive di vita. I tanti borghi del nostro territorio – sottolinea una opportuna informativa alla mostra – rappresentano, per ogni persona, la “Restanza”, ossia la lunga storia che accomuna e, da sempre, sollecita le riflessioni concernenti i valori ritenuti fondamentali per la vita di ogni uomo e di ogni civiltà. In ogni epoca del lungo cammino dell’arte e della letteratura gli artisti hanno trovato naturale far riferimento, nel proprio lavoro, al luogo natio come metafora della vita, alimentandosi di speranza. Un messaggio che l’arte, in qualsiasi modo espressa, tenta sempre di offrire alla riflessione dell’uomo. Così, partendo da presupposti storici e iconografici, Guariglia mette insieme le opere degli artisti Franco Arminio (poeta), Raffaele Boemio, Peppe Capasso, Salvatore Emblema, Gianni Grattacaso, Costabile Guariglia, Giuseppe Di Lorenzo, Donatella Mazzoleni, Luigi Pagano, Peppe Pappa, Nella Tarantino insieme ad una performance di musica e danza con Costantino Caruccio (chitarra) e Piero Leccese (danza) per aprire un confronto tra varie arti e un territorio che, forse, ha bisogno di un po’ di “restanza”. Emigrazioni giovanili docet! Sarebbe necessario che i borghi, i paesi, le contrade con le loro architetture, venissero immaginati come porte aperte sulla strada da visitare: spazi da vivere con le loro tipicità, anche nel rispetto di una tradizione tutta italiana che ha sempre mostrato quanto possa essere premiante vivere il proprio luogo dell’anima. Italia dei borghi belli, silenziosi, vivibili, a dimensione umana. Di grande impatto, quindi, è la foto di Gianni Grattacaso titolata “Il molo”, un bianco e nero di grande suggestione per l’italico popolo di santi ed eroi, ma anche di grandi navigatori. Scrive Grattacaso a dida di foto: «Il molo è un punto di transizione, un limite tra terra e mare. È un luogo di partenza e di ritorno, ma anche di attesa. Qui la “Restanza” si manifesta come un momento di contemplazione, di sospensione tra la decisione di partire e il bisogno di restare ancorati». Una mostra (inaugurazione sabato 8 febbraio ore 18) che si pone come una meditazione sul “restare non solo come scelta fisica, ma anche come condizione esistenziale, in bilico tra desiderio e necessità”.