– Andarsene a 53 anni, gli ultimi tre passati a combattere una battaglia che davvero voleva vincere. La sua partita più importante Sinisa Mihajlovic però non è riuscito a portarla a casa, lui che di vite ne ha vissute tante, lui che raccontava di avere negli occhi il dolore della guerra e di non vergognarsi delle lacrime che quelle immagini ogni volta gli rinnovavano. Di sicuro c’è un’esistenza nuova dopo la scoperta della malattia, nel 2019: niente sarebbe stato più come prima per l’ex giocatore serbo, il re delle punizioni, che anche da allenatore, sulla panchina del Bologna – l’ultima – ha continuato a lottare, a scendere in campo, mostrando i segni sul fisico della leucemia che sembrava avergli dato scampo e che invece se lo è portato via. Una morte “ingiusta e prematura” dice la famiglia annunciandone la scomparsa: la moglie Arianna, inseparabile dal 1995 e i cinque figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas (nel 2021 l’ex giocatore era diventato nonno di Violante). “Uomo unico, professionista straordinario, disponibile e buono con tutti – le parole dei suoi cari -. Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia. Ringraziamo i medici e le infermiere che lo hanno seguito in questi anni, con amore e rispetto. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato”. Negli ultimi giorni le condizioni di Mihajlovic, ricoverato in una clinica romana, si erano aggravate. Le voci si rincorrevano, i tweet di incoraggiamento di alcuni amici facevano presagire che la situazione stava precipitando. L’ultima apparizione in pubblico però appena due settimane fa, il primo dicembre a Roma, alla presentazione dell’autobiografia di Zdenek Zeman: un abbraccio, un bacio sulla fronte da Sinisa al boemo. Era apparso sorridente: “Da quando è arrivato lui in Italia si è cominciato a giocare pensando a vincere e non solo a non perdere” l’omaggio di Mihajlovic al tecnico più anziano. Lo scorso marzo aveva annunciato di doversi sottoporre a un nuovo ciclo di cure per contrastare la ricomparsa della malattia. Ma non aveva smesso di allenare. Schietto, diretto, mai banale: con Mihajlovic se ne va anche quel calcio che non c’è più. E non è un caso che ora che lui non c’è più, a sollevarsi non è il solito peana per chi muore: è un tributo globale, trasversale, che abbraccia avversari, amici, politici. Campione, guerriero, combattente, tenace, lottatore gli epiteti che si accavallano e si ripetono. Un capofamiglia in campo, e nella vita. “Un giorno che non avrei mai voluto vivere, perdo un amico con cui ho condiviso 30 anni della mia vita, in campo e fuori” le parole del ct azzurro, Roberto Mancini, che è andato nella clinica Paideia dove il tecnico è morto. “Non è giusto che una malattia così atroce abbia portato via un ragazzo di 53 anni, che ha lottato fino all’ultimo istante come un leone, come era abituato a fare in campo. Ed è proprio così che Sinisa resterà per sempre al mio fianco, anche se non c’è più, come ha fatto a Genova, a Roma, a Milano e poi anche quando abbiamo preso strade diverse”. Lo ricordano Uefa e Fifa, la Stella Rossa di Belgrado. Il Sinisa del campo. Nell’ultimo post ormai di mesi fa sua moglie – compagna di una vita – gli aveva dedicato una poesia: “Come quando torni a casa e posi le chiavi all’ingresso e sorridi perché sai di essere al sicuro”. La foto di loro due sorridenti e abbracciati. Il finale doveva essere un altro, piuttosto che andarsene così in una giornata cupa di dicembre, a 53 anni. (ANSA). ROI 2022-12-16 19:10 S0B