Il ricordo di Bruno Mazzotta, storico capitano della Cavese del dopoguerra, deceduto all’età di 25 anni, nel 70esimo anniversario della morte. Sono trascorsi 70 lunghi anni da un avvenimento luttuoso (una morte ad oggi rimasta ancora senza un perché) che getto’ nello sconforto l’intera città di Cava dei Tirreni, perché la privò di uno dei suoi giovani figli più brillanti, l’amatissimo capitano della sua squadra di calcio, Bruno Mazzotta. Il (suo malgrado ) protagonista sfortunato di quella tragedia era il fratello (per parte di madre) di mio padre,
lo zio che non ho mai conosciuto. La vicenda ha origine negli anni immediatamente successivi al secondo disastroso conflitto mondiale, in un paese distrutto, nel quale la guerra ha lasciato lutti e rovine. Ma nei sopravvissuti( e Bruno Mazzotta è uno di quelli, essendosi trovato nel 1944 sulla linea del fronte proprio mentre infuria la tremenda battaglia di Cassino che porterà all’infame distruzione alleata della millenaria abbazia) la voglia di ripartire e di vivere, superando quei momenti bui così ancora tremendamente angoscianti e recenti è grande ed il calcio è la passione numero uno di quei ragazzi come lui, dotati di naturale talento.
Bruno è nato a Cava dei Tirreni il primo luglio 1925 da Matilde Casaburi e Luigi Mazzotta, che di lì a poco dovrà trasferirsi a Gorizia con la famiglia in ragione del proprio lavoro (siamo negli anni seguenti alla prima guerra mondiale, in quella terra di frontiera oggetto di annoso contenzioso, quel confine orientale dove i nazionalismi fanno prepotentemente sentire i risentimenti inevitabilmente non sopiti). Nei miei ricordi di bambino al riguardo è rimasto indelebilmente impresso quello che la nonna Matilde – che mi aveva insegnato la canzone del Piave che soleva cantare spesso, lei di profondi sentimenti nazionali, e che da allora conosco strofa per strofa a memoria- mi raccontava di quel periodo vissuto in quelle lande martoriate ed in particolare dei rancori esistenti tra gli italiani di quelle zone e gli jugoslavi, derivanti da una oggettiva e profonda diversità culturale, di usi e costumi.
Il soggiorno in quelle lande lontane non dura molto, perché Luigi Mazzotta improvvisamente muore e mia nonna è costretta a tornare a Cava con il piccolo Bruno, dove si risposerà con Francesco Cuoco, dalla cui unione nascerà mio padre Salvatore.
Bruno cresce e gioca –bene- a calcio, oltre a studiare all’Università con profitto Giurisprudenza ed ad avere una bella fidanzata, la signorina Annamaria Amabile, di nobile famiglia cavese: è buono di animo, generoso e benvoluto da tutti, ed è un ottimo atleta, tanto da diventare un giovanissimo capitano della Cavese, pur con la presenza in squadra di calciatori di esperienza e di valore più grandi di lui.
Quella Cavese è una squadra forte, che macina un calcio pratico ed efficace ma anche bello da vedersi, che vince due campionati di seguito ed approda in Promozione, che nella graduatoria dei campionati allora veniva subito dopo la serie C, e Bruno ne è l’alfiere e il capitano. Il mio capitano, come affettuosamente mister Piero Santin (allora giovanissimo calciatore, che trenta anni dopo avrebbe portato in serie B la Cavese come allenatore) amava chiamarlo. «Era un giocatore molto tecnico, un centrocampista di gran classe, ma anche un punto di riferimento e una guida per noi giovani” ricorderà mister Santin in un’intervista che gli feci per il “Roma” del direttore D’Angelo in occasione dei trenta anni dalla vittoria conseguita dalla Cavese sul Milan a S. Siro il 7 novembre 1982.
Senonché, per un crudele scherzo del destino, proprio nel momento di maggior fulgore fisico e di vita, nella prospettiva delle nozze con la signorina Amabile e di una laurea in Giurisprudenza, nonché sulle ali dei successi sportivi e dell’amore dei tifosi, la gioia si trasforma in dramma, e dopo quello che mio padre mi definì uno scontro di gioco, dal quale si riebbe dopo essere stato soccorso con i mezzi che allora la medicina sportiva aveva a disposizione, tornato a casa lo zio Bruno fu costretto a patire una settimana di fortissimi, laceranti dolori di testa, dai quali derivò una devastante emorragia interna che lo portò alla morte, a nemmeno 26 anni, il 18 febbraio del 1951.
Le cause della morte non furono mai definitivamente chiarite, in un epoca ed in un periodo in cui la medicina sportiva non godeva dei mezzi strumentali e della diagnostica di cui dispone adesso.
I funerali furono un evento di popolo come mai se ne era visto a Cava de’ Tirreni, con tutta la città che si strinse intorno al feretro del giovane capitano della Cavese, con la maglia biancoblu con il numero sei con l’aquilotto disposta sulla bara, che le cronache dell’epoca narrano come solenni e commoventi.
Anni dopo allo zio Bruno, con la costruzione del nuovo impianto di via Mazzini, in molti sostennero che sarebbe stato doveroso intitolargli il nuovo stadio, lui capitano della Cavese, figlio di Cava dei Tirreni e morto per cause di gioco per la maglia blu e bianca degli aquilotti e la candidatura arrivò alle soglie della valutazione della casa comunale cittadina. Ma le strade della politica portarono prima a dilatorie non scelte, poi, frettolosamente ad una scelta che – lo dico con grande rispetto per i familiari ed i genitori della sfortunata Simonetta Lamberti , la prof. Angela Procaccini già collega di mio padre buonanima al “Matteo Della Corte” ed il dr. Alfonso Lamberti scomparso qualche anno fa– apparve avere poco a che fare con lo sport ed il calcio in particolare, essendo legata la intitolazione degli stadi per consolidata tradizione alla memoria di un’atleta scomparso. Nell’occasione la decisione assunta con delibera di giunta suscitò perplessità per le ragioni summenzionate, ma mio padre il prof. Salvatore Cuoco, con la sua innata discrezione e la sua profonda signorilità non volle mai fare alcuna pressione ne’polemica per indirizzare una decisione che oggettivamente avrebbe dovuto conseguire ex se, come lo stesso mister Piero Santin ebbe esplicitamente a dichiarare.
I 70 anni dalla tragica scomparsa di Bruno Mazzotta, che molti giovani tifosi aquilotti non hanno magari mai sentito nominare e che il presente ricordo mi auguro possa essere servito a far conoscere, possono rappresentare anche un invito all’attuale amministrazione comunale ad onorare un debito morale nei confronti del compianto Bruno Mazzotta,in ragione del suo sacrificio per la squadra e la città , per ricordarlo almeno con l’intitolazione di una piazza o di una strada cittadina.
Il dramma di Bruno Mazzotta si compiva tanti anni fa. Ma come è ben noto, ancora oggi le morti di calciatori– e sportivi in genere -, anche i più ligi e scrupolosi e seri nel condurre una vita da atleta, si ripetono sui campi di gioco.
Per questo la battaglia per la sicurezza della salute degli atleti va sostenuta e incoraggiata, per evitare che eventi siffatti possano ripetersi. Se non del tutto – sarebbe un’utopia, data anche la componente fatalistica di tali accadimenti – ma almeno con frequenza minore e soprattutto non in ragione della mancata prevenzione e dei mancati indispensabili controlli.
Francesco Cuoco