All’indomani del successo de’ “Il Sordo” di Leo Nucci e Paolo Marcarini, il soprano protagonista, la salernitana Nunzia De Falco ci dona questo contributo sulla nascita di questa commedia musicale in un atto che dal teatro di Piacenza ha inaugurato l’anno beethoveniano
Di Nunzia De Falco
Fino all’ ‘800 si era abituati ad una fruizione dell’arte musicale che fosse il risultato di un prodotto contemporaneo. Col cambiare delle abitudini, questo oggi accade molto più raramente: l’operazione di “nuova scrittura” è, di solito, affidata a circuiti che si occupano esclusivamente di linguaggi contemporanei, a festival creati ad hoc, oppure a programmazioni artistiche che vengono definite “coraggiose”, perché sottraggono il pubblico alla comfort zone di memoria acustica a cui è abituato, all’attesa dell’aria nota, al motivetto già fischiettato, alla trama che gli è cara, perché la nonna gliela raccontava come favola, prima di addormentarsi. Allora, dalla posizione privilegiata in cui mi sono trovata, cercando di non farmi guidare dall’emozione della musica di Marcarini, che ancora vibra in me, ma anche dallo spirito critico che mi caratterizza, vi racconto cosa significhi essere coinvolti in un progetto teatrale scritto oggi per oggi e, possibilmente, per domani. Quando Leo Nucci mi ha sentito cantare “La Traviata”, aveva già nel cuore il soggetto de “Il sordo, Sogno d’amore in una notte di San Silvestro”, i cui contorni musicali e drammaturgici erano stati delineati, ma restavano idea senza corpo. Coadiuvato da Cristina Ferrari, direttore artistico di Fondazione Teatri Piacenza, vide in me l’allieva Anna e, pian piano, i quattro personaggi che gli facevano compagnia nell’immaginazione, cominciavano a prendere forma e voce. Stiamo parlando di circa tre anni fa. La prima stesura del soggetto musicale, che mi fu data per cominciare a prendere contatto con un personaggio ancora etereo, era disegnata su una vocalità di ampio respiro lirico, estesa, con arcate di frasi trascinanti e ricche di pathos espressivo, che ricordavano la scrittura tardo-ottocentesca e primo-novecentesca. Il sapore di una scrittura nuova, ma che conteneva echi di Leoncavallo, Debussy, Puccini, Cilea, Beethoven stesso ed anche un pizzico di Menotti, cominciava a prendere la sua fisionomia definitiva sul mio canto e, proprio come accadeva nel passato, quando compositori, librettisti ed editori davano concretezza al loro estro, confidandosi e confrontandosi in lunghe lettere per scegliere i cantanti che sarebbero stati i primi interpreti dei loro soggetti in nuce, Anna è stata modellata progressivamente sulla mia personalità vocale, non solo in diversi incontri musicali, ma anche tramite uno stretto confronto telematico. Lo stesso è valso per Il maestro, ossia Beethoven, Leo Nucci stesso in sintonia compositiva con Paolo Marcarini, per Joseph, il tenore Ivan Defabiani e per Karl, il basso Davide Procaccini. L’attenzione rivolta a questa face pre-scenica è stata molto accurata, perché il primo interprete regala al ruolo parte di sé, della sua essenza espressiva, lascia al ruolo stesso l’imprinting di una vocalità e di una prossemica, mescolando l’identità attoriale al personaggio. Da questa posizione, complice di un estro condiviso, ho assistito e partecipato all’intelaiatura del progetto, contribuendo io stessa, esprimendomi in team con gli autori, Paolo Marcarini e Leo Nucci, coi colleghi cantanti, col direttore, Jacopo Brusa, col regista, Salvo Piro, col costumista Artemio Cabassi e con tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione dell’opera. Il teatro non vuole i suoi figli posseduti da una tensione artistica fine a se stessa, ti ricorda ad ogni passo che hai bisogno di essere vigile, di spostare col piede la coda del vestito, di acciuffare con la mano un foglio troppo lontano, di essere scarica fisica di corrente adrenalinica ed il work in progress ti pone ancor più in una condizione di artigiano sveglio, attento, pronto. Perché è sulla scena che l’opera prende la sua versione definitiva, la “più vicina all’originale” che poi diventa il tarlo del filologo, quando deve elaborare edizioni critiche. La soluzione, spesso, non si nasconde nell’intellettualismo o nell’estro creativo, ma nell’immediatezza della resa scenica. L’ultima bozza di un lavoro teatrale è sempre penultima rispetto a ciò che diventerà quando viene allestita e pure allora, a progetto ultimato, si lascia smussare dalla lima della necessità pratica, espressiva, scenica.Regista e direttore hanno continuato a dare forma a soggetto concluso, complici nel calibrare misure ed intenzioni. Trovarmi in medias res in una simile operazione, mi ha permesso di coniugare l’espressività della cantante allo scrupolo osservativo della ricercatrice, permettendomi di dare nuova forma anche al modo di leggere le opere del passato, di sottrarmi ad un’esegesi che non deve concentrarsi solo sulle volontà dell’autore, per ampliarsi necessariamente a ipotizzare necessità pratiche, che sopravvengono nella messa in scena. “Il sordo”, commedia per musica in un atto, è apripista di tutte le manifestazioni che saranno celebrate in onore di Beethoven, nel 250° anniversario della nascita, e pur presentando al pubblico una trama semplice in cui è protagonista ciò “che move il sole e l’altre stelle”, l’amore, per la musica, l’amore platonico, che lega spiritualmente Anna al maestro, l’amore fisico e che diventa progetto di coppia in Anna e Joseph, non tralascia, senza pretese di catarsi tragica, il dramma della privazione del secondo senso che ha tormentato la vita del compositore tedesco. Rimasi molto colpita, anni fa, da un progetto didattico che presentava l’opera a scuola, reinterpretando i celebri ritratti di grandi geni, Mozart, Bach, Beethoven, in chiave giovanile e moderna, icone attuali un po’ dark, con piercing, tattoo, a seconda della personalità. Erano i geni adulti nella loro maturità espressiva, quelli che il mondo conosce, immaginati adolescenti. Ognuno di loro per diversi motivi, pensai, probabilmente sarebbe considerato BES, bisogno educativo speciale, nella scuola di oggi. Il sordo avrebbe avuto l’invalidità al 100% e, immaginato come tale già da ragazzo, complice la sua storia personale e un carattere non sempre propenso alla socialità, probabilmente sarebbe stato cyberbullizzato dai compagni di classe. Quest’opera, oltre che sedurre le platee dei teatri, potrebbe riuscire ad affidare al palcoscenico un intento educativo, trait d’union tra arte e didattica, complice la musica di Marcarini, che si lascia cantare e abbraccia il pubblico in slanci emotivamente avvolgenti ed il soggetto di Leo Nucci, che mette in scena temi importanti, ma con adorabile leggerezza e desiderio di rinascita. “Il sordo” presenta un Ludwig resiliente, che condivide il dramma della privazione acustica, senza annegare nel solipsismo di un chiuso monologo con se stesso, non stanco di creare, ammaliare, condividere. E’ quel Beethoven dai tratti umani a cui il pubblico alzava fazzoletti bianchi, in segno di plauso, per la prima esecuzione della Nona, per comunicare l’entusiasmo con una sinestesia gaudente, che affidava al gesto un boato che Ludwig non poteva sentire, ma avvertire.