Di Pina Ferro
In primo grado, alla luce di alcune relazioni tecniche, i giudici del Tribunale di Sa- lerno di Salerno avallarono il nesso tra la neoplasia diagnosticata alla signora Valeria Rinaldi e l’aver lavorato per anni esposta a materiale cancerogeno senza nessuna protezione presso l’azienda Metallurgica Vallepiana di Giffoni Valle Piana. La Corte di appello non conferma la sentenza di primo grado e accoglie il ricorso presentato dall’Inail. A de-nunciare l’intera vicenda e, a preannunciare ricorso in Cassazione è la figlia di Valeria Rinaldi, scomparsa ancor prima che il processo di primo grado prendesse il via, Vania Calce. La donna è determinata a stabilire la verità e le cause reali che hanno portato la madre ad ammalarsi di cancro e suc-cessivamente alla morte. «Mia madre, prima di morire, fece domanda per il ri- conoscimento della malattia professionale e, a seguito del mancato riconoscimento da parte dell’Inail, – racconta Vania Calce – fu avviato il procedimento in Tribunale. Circa un mese dopo la presentazione del ricorso, mia madre perse la sua battaglia contro il cancro e così, quando il giudice attribuì l’incarico a un Ctu medico legale, la consulenza fu espletata sulla documenta- zione medica. Il Ctu di primo grado, depositò una relazione di 67 pa- gine, riconoscendo, a valle di dati clinici, studi internazionali e un’analisi dettagliata delle patologie di cui soffriva mia madre, la correlazione tra l’insorgenza del cancro e l’aver lavorato “per oltre 6 anni, senza alcun dispositivo di protezione, su di una postazione che sormontava le vasche ripiene di tricloroetilene e di percloroetilene che bollivano». A questa Ctu Inail, in persona del proprio ctp replicò asserendo che: “nessuno esclude che la Rinaldi sia venuta a contatato con fumi di tricloroetilene e di perclo- roetilene, ma scientificamente non è stato mai provato l’effetto oncogeno di tali sostanze sulle mucose dell’intestino sugli uomini. Assurdo ed azzardato ap- pare affermare un effetto mutageno dell’etilene ed percloretilene e di conse- guenza riconoscere l’esitenza di un effetto concausale ai fini dell’insorgenza di un cancro del colon”. Va precisato che l’effetto mutageno e quello cancerogeno sono riportati sulle etichette delle schede di sicurezza delle suddette sostanze chimiche. Il primo grado di giudizio si concluse con una sentenza favorevole alla famiglia di Valeria Rinaldi. «Inail ha presentato appello basandosi sul “secondo me” e si è instaurato il secondo grado di giudizio. Incarico ad altro Ctu medico le- gale. Una delle cose che voglio già raccontare è che il medico in questione, in uno degli incontri ci ha detto: “spero che adesso la poverina stia meglio”. Eh già… Era convinto che mia madre fosse ancora viva! Peccato che già la Ctu di primo grado era stata svolta su do- cumentazione perché mamma era morta! Il Ctu comunque ha fatto proprie le considerazioni del ctp Inail e sul “secondo me” e ignorando completamente la ctu di primo grado alla quale avrebbe dovuto far riferimento per smontarla o confermarla, ha negato la correlazione tra l’ambiente insalubre in cui operava mia madre e l’insorgenza del cancro. In particolare il ctu scrive: “Si discute della pratica ed in particolare ri- guardo al nesso di causalità, che si ritiene non sia possibile riconoscerlo malgrado le numerose documentazioni esibite dai resistenti”. Scrive anche “I familiari della Rinaldi hanno esibito anche un elenco di lavoratori deceduti di neoplasia nello stabilimento della Me- tallurgica Vallepiana, ma nessuna neoplasie era un tumore al colon”. « E questa affermazione è sempre “secondo lei” – precisa Vania Calce – perchè non ha mai richiesto e consultato i ReNcaM dei nomi forniti e ha ignorato la Verità proces- suale dei nomi mai contestati da Inail di persone che nel ricorso di primo grado abbiamo indicato come decedute per cancro intesti-nale ovvero malate. Infine, ha il colpo di genio e scrive: “In quanto medico addetto alla radioprotezione, al fine di valutare il nesso di causa tra malattie neoplastiche ed esposizione a radiazioni ionizzanti, che sono considerata dalla Iarc potenziali carcinogeni, sono abituata ad utilizzare la formula della probabilità di causa che è la valutazione numerica della verosimiglianza dell’ipotesi causale, metodo usato sia dall’INAIL che dal Mini- stero della difesa per contenziosi da neoplasie dovute ad esposizioni a radiazioni ionizzanti. Tornando a noi, su questo nulla spinto, su ipotetici calcoli mai esibiti, la Corte ha deciso che il cancro di mia madre non proviene dall’uso prolungato e senza alcuna pro- tezione di sostanze cancerogene e mutagene. Per evidenziare la tossicità del luogo di lavoro ove ope-rava mia madre è opportuno fare un parallelo con il disa- stro di Cernobyl. In Ucraina il disastro nucleare ha pro- vocato quattromila morti per cancro, su una popolazione interessata di trecentosessantamila unità. Nella Metallurgica Vallepiana ce ne sono stati 11 su 35 dipendenti; la proporzione tra di- pendenti e tumori sarebbe ancora più alta se si decur- tassero due unità al totale dei dipendenti, perché impiegate in uffici lontani dai capannoni produttivi e con nessun contatto diretto o indiretto con i solventi e i fumi della lavorazione e dello sgrassaggio dell’acciaio. Quelle sui numeri di malati e/o deceduti per cancro tra i dipendenti della Metallurgica Vallepiana, sono affermazioni mai smentite benché prontamente verifi- cabili dall’Inail consultando il numero degli assicurati e dunque verità acclarata sia sotto il profilo processuale che reale. La nostra Cernobyl l’avevamo in casa ma non ce ne eravamo avveduti. Come sia possibile dinanzi a questi numeri negare l’evidenza epidemiologica, da sola sufficiente a confermare la decisione gravata, non è dato di capire!».