Levanon: il pianista senza orologio - Le Cronache
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Levanon: il pianista senza orologio

di Olga Chieffi 

L’arte non segue il tempo umano. Lo sa bene il giovanissimo Yoav Levanon, che si esibirà questa sera, alle ore 20, sul palcoscenico del Teatro Municipale Giuseppe Verdi di Salerno, ospite della stagione concertistica del massimo cittadino. Yoav ha iniziato lo studio del pianoforte a soli tre anni, leggendo, quindi, prima il pentagramma delle lettere e i numeri. Ogni volta che si asside al pianoforte, per studiare, sa bene cosa vuole ottenere in quella sessione di studio e non si alza dalla panchetta fin quando non l’ha ottenuta o almeno non l’abbia avvicinata, senza guardare l’orologio. La sua gioia esplode quando riesce a comunicare, attraverso le sue dita sulla tastiera la sua personale visione del brano. Pensa da artista professionale e compiuto il quattordicenne Yoav Levanon, il quale proporrà al pubblico salernitano un programma eterogeneo, che principierà con l’esecuzione Prélude Chorale et Fugue di Cesar Franck,, datato 1884, una pagina ampia, solenne, di intensa poesia, che lascia il posto all’intera esposizione del tema nel Poco Allegro e di lì a poco nella Fuga vera e propria. La fuga si sviluppa quindi con estremo rigore costruttivo ma ad un certo punto, dopo un concitato crescendo di intensità e di volumi, si blocca sull’accordo arpeggiato della dominante, si minore. A questo punto, nello spirito di una cadenza, si riprende il movimento continuo del Preludio e di lì a poco anche il Corale. Con una logica formale e costruttiva ineccepibile, si assiste alla sovrapposizione delle tre parti della composizione in un mirabile equilibrio fra spirito classico e ripensamento romantico, senza alcuna contraddizione. Il pianista continuerà con il Fryderyk Chopin della Balla n°4 in Fa Minore, op 52, composta nel 1842. Dopo una breve introduzione, l’intenso lirismo di una cantilena che si dipana e si riavvolge su se stessa è l’elemento predominante in una serie di variazioni e digressioni ora svagate, ora brillanti, ora drammatiche, finché, dopo un episodio contrappuntistico di esangue astrazione, riappare la cantilena dell’inizio, seguita da uno dei temi secondari, ed è dunque con il solo senno di poi che capiamo anche qui, dopo sì aspro e forte viaggio in oscura selva di note, di aver seguito il sentiero di una forma sonata. Memorabile la Coda, in cui la abnorme tensione precedentemente accumulata trova finalmente sfogo in catene di terze martellate, raffiche di arpeggi, rantoli di biscrome puntate. Si proseguirà, quindi, il Claude Debussy del I libro di Images, composto nel primo lustro del Novecento. Il pianoforte di Debussy è uno strumento multiforme, capace di passare dallo stato liquido a quello aeriforme in maniera magica: ora sfuggente come acqua che scherza con la luce (Reflets dans l’eau), ora volatile come un gas che evapora nell’aria, riesce a trasformare questi elementi rubati al mondo esterno in suggestioni inafferrabili, un ponte tra il suono e il silenzio, che consente di raggiungere la dissolvenza incrociata tra ciò che è e ciò che non è. Se l’uso sapiente delle armonie e degli arpeggi costruisce il gioco sinestetico dell’illusione acquatica in Reflets dans l’eau, l’Hommage à Rameau, il brano più lungo e sviluppato della raccolta, trasfigura ancora una volta l’arte e le suggestioni, musicali e visive, del Grand Siècle francese, servendosi della forma antica della Sarabanda. Il brano potrebbe essere stato originato dalla forte impressione di un’esecuzione privata di estratti dal Castor et Pollux di Rameau, in un salon musicale parigino. Finale lisztiano con la “Rhapsodie espagnole” S.254, da cui prorompe un virtuosismo assoluto su spagnolismi idealizzati.