Olga Chieffi
Sarà l’opera “oreniana” per eccellenza, a sigillare la stagione lirica del teatro Verdi di Salerno, dal 26 al 28 dicembre, Nabucco. Il capolavoro “risorgimentale” di Giuseppe Verdi è stata presentato, ieri mattina a Palazzo di Città dal segretario artistico Antonio Marzullo e dal Sindaco Enzo Napoli, unitamente alla coda di Musica d’Artista, che prevede il concerto delle Voci Bianche dirette da Silvana Noschese e il doppio impegno dei Filarmonici con Maria Agresta, incoronata al Teatro dell’Opera di Roma, miglior soprano dell’anno agli International Opera Awards, a Capodanno. Classica la terza regia dell’anno firmata da Plamen Kartaloff, con le scene di Alfredo Troisi, il quale con il nostro teatro e Daniel Oren, ormai di stanza a Sofia, ha creato un vero asse italo-bulgaro. Ieri mattina è toccato proprio ad Antonio Marzullo, presentare l’opera, dove gli ottoni hanno tanto spazio, a cominciare dalla Sinfonia, con lo splendido corale. Il linguaggio del Nabucco porta infatti, per la prima volta in primo piano due elementi del primo Verdi, che ne costituiscono l’assetto, la violenza brutale dell’eloquio e la realizzazione in musica non di caratteri individuali sibbene di formule, schemi, simboli, di una tensione collettiva. Coro, protagonista in palcoscenico e nell’immaginario di noi tutti, per la sua forte identità drammatica, agente quale specchio delle vicende e delle emozioni collettive, affidato alle intuizioni del direttore Francesco Aliberti. Una grande coralità discendente da certo filone rossiniano del Mosè e del Guglielmo Tell, come il leggendario coro del III atto, omoritmico sottovoce e cantabile con i legni e il primo violino all’unisono del canto. Ma questo coro simbolo di una catartica sofferenza universale e chissà perché diventato emblema di patriottica italianità è seguito dalla michelangiolesca profezia di Zaccaria e dallo stesso coro “Oh chi piange? Del futuro nel buio discerno”. Così, l’introduzione all’opera è un immane coro di Ebrei, Leviti e Vergini, e la chiusa, prima dell’insolito recitativo di Abigaille, è un grande concertato a sette voci soliste e coro a cappella che prega l’ “Immenso Jehovah”. Due i finali concertanti, grandiosi di scena e di musica, sempre bipartiti e avviati dall’imperversante protagonista “Tremin gl’insani” come Andante sottovoce a sei parti con coro e “Chi mi toglie il regio scettro?”, una stretta che da Allegro scema prima in Andante e poi in Adagio alla fine del secondo. L’altro momento centrale è quello del rinsavimento, inverato nell’unica aria di Nabucco: “Dio di Giuda!”, seguito dalla cabaletta anche corale “O prodi miei”. Attesa la Pirozzi nel ruolo di Abigaille, nel recitativo degno della Lady Macbeth, prima della violenta cabaletta, ritaglia un Andante “Anch’io dischiuso un giorno ebbi alla gioia il core” che la soavità della melodia e il sognante colore del flauto impongono di per sé e intanto, propongono come anticipazione del finale di morte e contrizione. In buca, alla testa dell’Orchestra Filarmonica Salernitana ci sarà Daniel Oren. Se c’è un’opera che sappia essere più forte e più povera dei Puritani, meno ricca di Aida e non meno forte di Don Carlos, questa è veramente l’elementare, a suo modo irripetibile Nabucco di Giuseppe Verdi, che a parte la gemma melodico-espressiva del coro celeberrimo, è partitura tutta bella, buona e compatta, articolata da un istinto e da una mano già incapaci di sbagliare. Una rilettura quella di Daniel Oren, che sappiamo basata sul ritmo, sulla velocità, sull’odio (assoluta la sua Maledizione) per elevarsi, poi, nelle oasi di preghiera, che diventa denuncia civile in un periodo in cui anche la musica contribuì a far rialzare la testa al nostro popolo, sotto il tallone austriaco. Il lessico del melodramma più conosciuto, tra quelli del giovane Verdi, avvalora senza dubbio l’asserzione che la sua musica sembra di una tal gagliarda forza illustrativa e comiziale da assumere una specie di ruolo di guida della coscienza civile dell’Italia da fondare, o, se si preferisce, di documento che testimonia di un’area sociale, culturale e linguistica, su cui tuttora ci si esercita come su un libro di storia patria. La sua cruda evidenza sarà fatta rivivere, in quel “guazzabuglio”, di emozioni e contrasti, che è il cuore umano, per evocare termini di manzoniana memoria. E’ una cruda evidenza riscontrabile fin dalla celeberrima sinfonia dell’opera, ove l’elementarietà del suono di fanfara colpisce come la lingua di un sanculotto introdottosi in un salotto bene, ma subito s’avvertirà, nel corso dello svolgersi dell’opera, un altro tratto di singolarità, l’assenza di un protagonismo tenorile. Si sa quanto il tenore del melodramma romantico nazionale, il belliniano e il donizettiano, si fosse identificato con l’ “eroe” o, comunque, avesse avuto funzione di strumento primario d’emozione: il povero Ismaele, al quale darà voce Galeano Salas, è ben lungi da ciò, poiché Verdi ha chiaro già in mente come l’epica sarà, d’ora in avanti, compito della corda baritonale, la più virile, la più psicologica, Nabucco, quindi, che vivrà del talento di Amartuvshin Enkhbat, appena incoronato miglior baritono agli International Opera Awards, mentre il 27 dicembre si canterà Alfredo Daza, Zaccaria sarà un vero basso, Evgeny Stavinsky e il gran sacerdote di Belo, Carlo Striuli Abigaille, portatrice dell’istanza belcantistica, ma allo stesso tempo colei che quell’istanza ribalterà, in forza dell’inaudito spessore del declamato, sarà Anna Pirozzi, ruolo diviso con Ewa Plonka, per la seconda recita, mentre Fenena avrà la voce di Alisa Kolosova. Cast completato da Francesco Pittari (Abdallo) e Miriam Artiaco (Anna).





