D’Antonio l’uomo del dopo Loia: finisce l'epoca più buia dell'ateneo - Le Cronache Ultimora
Ultimora

D’Antonio l’uomo del dopo Loia: finisce l’epoca più buia dell’ateneo

D’Antonio l’uomo del dopo Loia: finisce l’epoca più buia dell’ateneo

di Malatesta

L’Università di Salerno sembra riprendere fiato gettando le basi di un probabile dopo-Loia denso di favorevoli attese. L’altra sera si sono manifestate tutte le premesse affinché il periodo più buio della storia dell’ateneo possa essere superato, grazie all’accordo raggiunto tra i candidati D’Antonio-Campiglia-Adinolfi di opporsi al procrastinarsi dello status quo. Confluendo sul programma del professor Virgilio D’Antonio – il più convincente sul piano prospettico, specialmente sui rapporti tra l’Università, il territorio e una modernità ricca della tonalità emotiva del controverso tempo presente – i suoi colleghi Campiglia e Adinolfi hanno dato prova di intelligenza e serietà, tracciando la strada per smarcare l’istituzione accademica dalla profonda alienazione rispetto a sé stessa, indicando nel giurista salernitano un rettore giovane, autorevole, libero e soprattutto lontano dal modo di intendere il potere di Vincenzo Loia. C’è pertanto il tentativo di un ritorno alla civiltà della koinè universitaria, al possibile inizio di una storia rinnovata, che cancelli la rapacità pulsionale con la quale il rettore in scadenza ha gestito il suo potere. Le modalità operative di Loia sono state segnate, d’altra parte, dalla solitudine e dall’introversione e percepite dalle componenti accademiche come protagonismo autoreferenziale, incapace di costruire un qualsiasi dialogo con il corpo accademico. Un rettore nel suo bunker, tra i suoi residui aficionados, lontanissimo dalla vita del campus. Eppure, Loia si era presentato alle passate elezioni come il docente e l’intellettuale di una nuova Origine. Dopo Aurelio Tommasetti, che aveva esasperato il concetto di Università come community e storytelling, bombardando quotidianamente di servizi e messaggi gli studenti e tutte le componenti dell’Ateneo, Loia era stato individuato come il rifondatore di una comunità, come colui che avrebbe dovuto attuare una politica di partecipazione, rigore scientifico e comunicazione, conferendo all’Università di Salerno una sorta di “stabilità dell’essere”, illuminando una selva oscura di senso e di futuro. Vinse per questi motivi il serrato confronto con Maurizio Sibilio, una figura, quest’ultima, associabile all’insostenibile leggerezza dell’essere di certa accademia italiana. Loia vince, delinea in campagna elettorale il corpus di una struttura spazio-temporale in grado di agganciare la modernità e le importanti tradizioni accademiche salernitane, suscita entusiasmi e consensi all’alba del suo mandato. Abortito, però, nello spazio di un mattino: “riconsegna” l’Università al suo oppositore, stringe con lui un innaturale legame di potere, umilia i propri sostenitori, con il solo obiettivo di gestire e consolidare la propria durata, mortificando il senso critico, punendo, allontanando, edificando improbabili e ridicole carriere. Ha fabbricato, Loia, una nuova categoria umana, quella del cinico Camaleonte che, con la sola forza di un potere ottuso, dà vita alla forma di un corpo detestabile. Evidentemente, il docente divenuto rettore aveva un sogno monolitico da trasformare in realtà: costruire un Sistema. Una seduzione borghese molto diffusa in Campania, come dimostra l’infinita carriera di Vincenzo De Luca. Sono personaggi, i De Luca e i Loia, che riescono a ribaltare il dissenso apparente che segnava le loro origini pubbliche in un conformismo paralizzante. De Luca non lascia mai e si cimenta quotidianamente nelle prove della immortalità della sua carica “gloriosa” e Loia – “per li rami” – gioca sugli stessi tavoli: i figli, i clientes, gli amici, i potenti, le amiche, le richieste di rinvio delle elezioni. Un potere, il loro, più angusto di quello clerico-fascista dei decenni andati, un potere da Nuovo Fascismo, direbbe Pasolini, che punta su un controllo poliziesco e sotterraneo del comportamento altrui. Quando i leader, a qualsiasi livello, si asserragliano nella roccaforte del potere, stringono all’osso la rete dei gregari, cancellano interi capitoli del loro personale “trattato” della tolleranza e sfidano così, con l’arroganza pestifera della carica, il velato dissenso dei propri potenziali critici e condannatori. Saddam si asserragliò con i figli, Mussolini fuggì con Claretta: è una storia antica, ci si rinchiude in un forziere, confidando nella diseducazione civica di massa. Nasce così, in spregio ad ogni logica selettiva e accademica, la candidatura della professoressa Alessandra Petrone al rettorato. “Non potrò esserci io, ma attraverso di lei è come se ci fossi”, dev’essere stato il ragionamento di Loia, assertore in questo caso di una democrazia senza demos, quindi meramente elettoralistica che ora tenta l’estremo aggancio all’ancora Vecchione. Quale persona, in una valutazione meramente terminale di un autunnale potere autoritario, poteva rappresentare in maniera non rischiosa le ragioni ultime della legittimazione del presunto patriarca? Carriera sorprendente, quella della professoressa Petrone che, nel giro di qualche anno, da ricercatrice è diventata professore associato e poi ordinario, senza avere sinora lasciato una sola traccia significativa nella sua produzione scientifica di settore. L’enorme afflusso nella prima giornata del voto per il rinnovo della carica di rettore credo si spieghi con una rivolta avvenuta nel cuore dell’accademia salernitana: quando l’arbitrio e l’abuso rischiano di contrarre e offendere la libertà degli altri, non è più possibile indugiare e vanno riannodati i fili di una storia, riaccendendo il fuoco della tradizione accademica spento da questi anni di lugubre gestione all’insegna dell’amichettismo. La signora Petrone, usata per il mero fine di un’omologante strategia totalitaria, suscita anche commiserazione. Non è riuscita nemmeno a dissimulare la sua inadeguatezza, perché il suo pigmalione l’ha lanciata senza rete nella mischia, omettendo di crearle un cordone culturale intorno per preservarne la già opaca immagine. È bastato leggere l’incipit del suo programma elettorale per rendersi conto del contrabbando ideologico operato da Loia nei confronti dell’elettorato e della storia dell’ateneo: nella sola prima pagina, al netto dei soliti inglesismi di parata e artificiosità tediose, la lettura inciampa negli anacoluti di un linguaggio involuto, fatto di traballanti espressioni grammaticali e sintattiche. L’inadeguatezza diventa così plateale, nella disastrosa degenerazione di tutti i valori significativi della grande tradizione accademica di Salerno. La probabile scalata di Virgilio D’Antonio al rettorato appare, perciò, non solo come una svolta ma come una disperata iniziativa “illuministica”, che non rilancia soltanto una stagione della res cogitans, sempre attuale e profetica, ma contrasta il tempo dell’uomo omologato da un potere sempre più ottuso e intollerabile.