di Marta Naddei
Che la partita si fosse decisa in quelle tre ore e mezza di colloquio privato, nel pomeriggio dell’11 settembre, era facilmente immaginabile. Lo avevano, probabilmente, pensato tutti. Fin dal principio era stata sottolineata l’anomalia dei due tavoli separati, ma nessuno aveva fatto una piega. Con il suo parere, il soprintendente Gennaro Miccio, ha però dato la conferma di tutto questo: prima liquidando il confronto mattutino intrattenuto con Italia Nostra, No Crescent e i Rainone come un evento dal quale «non sono risultate né utili, né accoglibili le controdeduzioni presentate da Crescent srl ed Italia Nostra, né da esse è possibile trarre elementi utili alla presente disamina». Tutt’altro discorso, invece, per il tête-à-tête con i rappresentanti del Comune, con in testa Felice Marotta e Maria Maddalena Cantisani, in cui fu manifestata «la disponibilità ad apportare modificazioni al progetto». Poi, la candida ammissione di Gennaro Miccio che, a pagina 10 della sua relazione, scrive che «l’oggetto del presente parere deriva, per le parti non ancora soddisfatte dai parametri prefissati, dalle proposte del Comune di Salerno nell’ambito del tavolo tecnico di confronto», specificando che il suo atteggiamento si fonda anche su quello che è «l’attuale orientamento della Giustizia amministrativa che risulta improntato ad un costante invito, rivolto agli Uffici dello Stato a porre in essere ogni possibile forma di cooperazione con l’altra amministrazione». Un invito che Miccio sembra aver, dunque, preso alla lettera nonostante, all’interno del suo stesso parere, il soprintendente sottolinei come sia perfettamente consapevole della mancanza dei caratteri di pubblica utilità del Crescent, edificio di proprietà – di fatto – dei Rainone e non del Comune di Salerno, del quale però sono state accolte le istanze. Insomma, una fitta rete di intrecci e di responsabilità in cui il soprintendente Miccio sembra essere rimasto impigliato.