Una crestomazia per la mostra dei cinquant’anni di arte di Antonio Baglivo - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Una crestomazia per la mostra dei cinquant’anni di arte di Antonio Baglivo

Una crestomazia per la mostra dei cinquant’anni di arte di Antonio Baglivo

di Vito Pinto
A Palazzo Fruscione si chiude la mostra per i 50 anni di “professione artista” di Antonio Baglivo, e resta quello che viene definito “Catalogo” dell’esposizione, ma che, ad una attenta analisi e lettura si rivela essere un’antologia del divenire di un artista che, per suo stile personale, non ha mai amato i clamori ed ha preferito i silenzi, luoghi privilegiati dove poter trovare le essenze meditative delle sue opere, tutte appartenenti a cicli pensati, lavorati, messi in sintesi espositive per raccontare un cammino racchiuso nelle pagine di questa pubblicazione che assume, a pieno titolo, l’aspetto di una crestomazia, un’opera “utile”, come recita il suo etimo greco, da “imparare”. E’, infatti, questa pubblicazione, dalla sapiente e intelligente grafica di Gaetano Paraggio e le foto di Pio Peruzzini e Jacopo Naddeo, una raccolta di opere scelte, realizzate durante i cinque decenni di attività di Antonio Baglivo, ma anche di testi letterari e critici di firme di grande rilievo che hanno accompagnato, di volta in volta, le esposizioni, i racconti d’arte che Baglivo offriva ai visitatori, mostre che hanno sempre avuto il compito e il merito di far riflettere, meditare su quei lavori che, all’improvviso, ponevano domande diverse dalle precedenti esposizioni, o cicli artistici, ma che tutte si muovevano (a guardare ora la raccolta di sintesi nella pubblicazione) in quel filone che alla fine sembra essere quell’enigma di cui Cristina Tafuri ha tracciato il profilo di lettura quali indizio per un alfabeto personale a cui Baglivo non ha mai rinunciato, sì che, a richiamo di Matteo Blanco, il tutto risulta essere un insieme di insiemi infiniti.
Ricordava Gerardo Pedicini in un testo posto in apertura di pubblicazione: «Era il 1985. Metà ottobre. Come da accordo telefonico avevamo stabilito di incontrarci a Piazza Dante a Napoli.
Anche se non ci conoscevamo, la cartella che Antonio aveva sotto il braccio fu l’indizio che mi portò subito a riconoscerlo. Ci sedemmo su una panchina e, senza altri convenevoli, incominciai a far scorrere tra le mani i disegni che mi aveva portato a vedere. Ne restai subito affascinato. Sui fogli si susseguiva un intrico incessante di linee che si avvolgevano e tornavano su sé stesse… Chiaro l’intento: creare una “relazione tra le diverse componenti” per ampliare o, in alcuni casi, creare nuovi percorsi di significato».
E aggiungeva più avanti «Base di ogni suo lavoro è infondere nella materia una energia vitale, declinata in molteplici usi. O meglio ricercare nella materia stessa il significato che essa detiene e nasconde».
Parole di un poeta che sapeva cogliere l’essenza di un’anima e che Baglivo ha sempre manifestato nelle sue opere: personaggio schivo della popolarità, mostrava, senza pudore, nelle sue opere il suo tormento di ricerca e la sua estasi di ritrovamento: “quaesivi et inveni”.Ed era lo scavare nell’intimo di una natura, quella che ci circonda nel quotidiano e quella, più profonda, che alberga nell’intimo di ogni uomo. Scriveva Nicola Scontrino, già nel 1978: «Egli vuole catturare la forza vitale che è insita nella natura stessa ed individua nell’onda quell’elemento capace di porre e di alterare al tempo stesso la spinta creativa della natura».
L’onda, già… e il pensiero vola a quel mare di infiniti orizzonti sui quali si affaccia la Salerno della storia, delle arti, della cultura (ormai perse in un mare dove non è dolce naufragare), «una geografia marina – ricordava Mario Lunetta – che contiene città, lavoro, eros, pensieri, abbandoni & durezze, sotto il pelo dell’acqua, in un silenzio fragoroso di carta violentata che istruisce le proprie geometrie, i propri ritmi: biologia del sogno che rompe il sogno, ne fa prensile densità, apparizione reale».
Avanza così il sogno, la “carta violentata”, o violata, dal segno di Baglivo a comporre “ibridi libri” nuove emozioni dove la parola si fa segno e il segno parola in una osmosi di lettura intima: forse hanno in comune solo il messaggio di uno scrittore, di un poeta e dell’artista nel narrare emozioni sempre più in via di estinzione nel magmatico cielo delle moderne tecnologie.
Antonio Baglivo, invece, resta fedele ai suoi strumenti di bottega: «Coltellini, sgorbie, aghi, bulini, piccoli bisturi di nebbia, – scriveva Rino Mele – e anche un foglio dolce di rame e punte attente di metallo per inciderlo, poi una tavoletta di legno duro, per entrare in questa familiare carne, tracciarvi gonfi segni, serpi di linee che nascondano il senso nella contrariata immagine rovesciata, la simmetria da leggere a testa in giù, come se per vivere si cominciasse dalla morte». E continuava, il professore universitario, «Somiglia molto, quello di Baglivo, al lavoro di un antico architetto, gli architetti del Seicento che erano anche scultori, pittori, scrittori. Ma per lui non ci sono piazze, palazzi, cappelle da costruire, ha solo quel tavolo, nella stanza dal balcone aperto, a Bellizzi, la carta, la pressa, i coltellini come bisturi del vento, e la passione di costruire modelli d’aria, voliere per chiudervi le parole».
Il vento, quell’impalpabile fruscio che a volte ti avvolge in un turbinio scompigliante capelli e membra sì da darti brividi di freddo (o di piacere), che si trovava nella più piccola, “capotica goccia d’acqua”, in quel foglio bagnato prima dell’incisione inversa che ne fa un’opera d’arte e di lettura immaginifica. «Scultore pure quando si fa millimetrico stampatore di carte» ricordava Gerardo Malangone, aggiungendo «nelle opere di Baglivo vedevamo l’uomo sapiente “per assimilata natura”, non la natura».
A scorrere le pagine di questa pubblicazione giunta alla fine di un percorso lungo mezzo secolo di vita d’artista, si scoprono quelle che potrebbero essere le infinite vite di Antonio Baglivo, modulate, di volta in volta, in quel “Cosmos e caos” in cui il pensiero si fa forza, l’artista si fa artigiano, l’anima si confonde con il cuore, la mente guida la mano nel segno cromatico, nell’incisione della materia (sia esso legno o quant’altro serve al momento), nella continuità di ricerca di sempre nuovi spazi da esplorare, da leggere, da interpretare. Un lavoro senza fine dove, a richiamo di Antonello Tolve, «la stoffa si inclina a materia pittorica che abbandona un corpo – quello dell’umano – per abbracciare e avvolgere lo spazio della pittura e avviare formule linguistiche apparentemente surreali».
Ed è un perenne “sconfinamento” da una dimensione ad un’altra, dalla tela alla carta, dal legno al rame, al piombo (quello tipografico di antico utilizzo editoriale), sino ai segni-sognati in bianco e nero, a quegli “enigmi” di cui all’inizio che sono un proseguire nell’immaginifico, ma anche un ricominciare a cercare e ritrovare quell’essere lontano e, nel contempo, intimo all’artista.
«Il Narciso-Baglivo – scriveva Alfonso Di Muro – conosce bene la formula cara di Rimbaud che “Io è un altro”, e sa che nell’aprirsi all’altro rischia di veicolare dentro di sé i dolori del mondo, ma sa bene che questo percorso è l’unica via praticabile nel processo della formazione di sé stesso, come uomo e come artista».
Lo sguardo di Antonio Baglivo si allunga su quegli orizzonti marini che già furono cari al mito, alla storia dei popoli che da sempre hanno abitato le nostre contrade lasciando segni di pensiero e di arte. Tace il belliziano artista a riprova di uno stile di vita dove spesso il pensiero, la meditazione del/nel silenzio sono più importanti della parola. Ma la storia continua e sono altre storie di tele dipinte, di legno inciso, di rame ferito, di fogli pressati nel divenire “inverso”, cifra di una vita di artista.