Ricordi del volceiano professore Marcello Gigante a 100 anni dalla nascita - Le Cronache
Attualità

Ricordi del volceiano professore Marcello Gigante a 100 anni dalla nascita

Ricordi del volceiano professore Marcello Gigante a 100 anni dalla nascita

di Oreste Mottola
Alle sue lezioni non volava mosca e se notava uno sguardo degli studenti verso orologi subito intimava di lasciare l’aula: “chi non è interessato lasci l’aula e non disturbi gli altri”. Ma giammai era un passatista ed innova lo stesso studio della papirologia con la lettura attraverso microscopi elettronici a illuminazione e per la conservazione dei papiri carbonizzati. A giustificazione delle sue rudezze carateriali portava le sue origini contadine: “quelle mani hanno però maneggiato solo libri”, precisavano in famiglia ricordando una puntigliosa precisazione della madre. Un altro 23 novembre, quello del 2001, fu nefasto per l’Alta Valle del Sele, quando scomparve Marcello Gigante, nato a Buccino che fu grecista, filologo, papirologo. Tra i grandi umanisti del Novecento. In questi mesi ricorrono i cento anni dalla nascita, era nato il 20 gennaio. Molto ricca l’aneddotica su di lui. Salernitano di Buccino (l’antica Volcei), è prima insegnante di Lettere al liceo Genovesi di Napoli nel 1949, poi docente di Filologia bizantina e Storia della filosofia antica all’Università di Trieste, di cui nel 1966 diventa preside della Facoltà di Lettere. Tornato a Napoli nel 1968, vi insegna Grammatica greca e latina e dal 1981 Letteratura greca. Alla Federico II ricopre anche, dal 1971 al 1983, la cattedra di Papirologia ercolanese, da lui stesso istituita. Fonda nel 1969 il Centro Internazionale per lo studio dei papiri ercolanesi (CISPE), dedicandosi all’Officina degli stessi (che ha sede nella Biblioteca nazionale di Napoli a Palazzo Reale) per la lettura attraverso microscopi elettronici a illuminazione e per la conservazione dei papiri carbonizzati. Nel 1983 organizza tra Napoli, Ercolano e Sorrento, il XVII Congresso internazionale di papirologia che segna il riconoscimento dell’importanza della collezione ercolanese nell’ambito della papirologia greco-egizia. Altri tratti che vengono ricordati sono la sua borsa pesantissima piena di carte e libri che lo accompagnava ovunque, le maniche della giacca sempre un po’ lunghe che parevano intenerire un aspetto che invece metteva soggezione e mitigava la soggezione per il suo profondo sapere. Curioso, rigoroso, a tratti timido. A dispetto del cognome era piccolo di statura Marcello Gigante. E’ stato un grande maestro perché ha insegnato soprattutto il culto della “parola del passato” che per lui non era “un mito, in cui ci si debba rifugiare disprezzando il presente, ma una realtà storica, da cui la coscienza del presente non può prescindere, per non sentirsi diminuita o depauperata di se stessa”. Quando Eboli volle conferirirgli la cittadinanza onoraria volle ricordare quegli anni di formazione presso il Liceo Classico intrecciando i ricordi scolastici e dei primi turbamenti adolescienziali con il tratteggiare l’intero ambiente della cittadina capofila della Piana del Sele, impressioni raccolte in una pubblicazione da Raffaele Ferrara.
L’adolescenza del resto restituiva già frammenti del letterato rigoroso quando, proprio ad Ebli, i suoi amichetti gli attribuirono l’amore per una ragazzina. Figurarsi, il giovane Marcello studiò come un forsennato due anni in uno, IV e V ginnasio per dimostrare ai compagni che i suoi occhi erano solo per i libri e si trasferì, per completare gli studi liceali. presso il Liceo di Sala Consilina. Marcello Gigante era cosi immerso nel mondo antico che quando saliva in cattedra, con voce sicura e senza mai darsi arie, poteva raccontare e raccontare per ore. Dentro il guscio c’era un uomo timido e buono, a suo agio con Epicuro, il filosofo greco che citava spesso nelle riflessioni sulla vita.”La morte non esiste, perché finché ci siamo noi non c’è lei e quando c’è lei non ci siamo più noi”. Ora il suo paese, più l’antica Volcei che la moderna Buccino, gli ha intitolato un Museo Nazionale di grande pregio ma già vittima di misere lotte municipali. Già il paese natale che bisogna sempre amare ma imponendosi – come lui sosteneva – di superarne i confini. La ricchezza di questo buco del mondo è la sua storia millenaria, le migliaia piante di ulivo e gli abitanti che popolano case di pietra sopravvissute ai tanti terremoti. Poi i riti e le tradizioni, gli sposi chiusi in casa otto giorni dopo le nozze e le donne che si battevano il pugno sul petto per segnalare ai (pochi) briganti, più temuti e sopportati che amati, l’arrivo delle odiate guardie. Come ai posteri viene tramandato un altro aneddoto, accaduto durante gli ultimi scavi archeologici. Durante le operazioni di scavo della casa destinatata diventare la “taberna”, un ristorante che preparerà solo le antiche ricette romane e lucane, l’operaio addetto allo scavo trova un pezzo la cui forma è inequivocabile. Più in là la direttrice degli scavi vede e conversa con altri archeologi. Commentano di quel quel “fallus” simbolo di fecondità, insomma, un buon augurio. L’operaio lavora ed ascolta. Ad un certo punto si sente in grado di contraddire gli archeologi “laureati” e prorompe in un “ma quale fallùs, questo qui è una c.d.c., usando una espressione grossolana e d’uso comune. Sicuramente Marcello Gigante avrebbe apprezzato la cultura dell’operaio volceiano, sorridendone compiaciuto.