di Alberto Cuomo
Tra sale e tivu imperversano sullo stesso tema della vecchiaia, avendo sullo sfondo il fantasma di Fellini, del suo “8e1/2”, almeno tre film. De “Il ritorno di Casanova” di Salvatores si è detto il peggio, sebbene sia tra gli altri il più leggero, non appesantito neppure dal riferimento al piccolo romanzo di Schnitzel. Oltretutto c’è forse un vecchio, tanto più se affermato cineasta, qual è il protagonista del film, cui non appartiene il sogno di concupire una ragazza giovane e bella come Sara Serraiocchi, una improbabile contadina che, a differenza di Lolita, ci sta, prostata permettendo? E il sogno, forse impossibile, che si intreccia con quello di averla vinta su un giovane concorrente in un premio cinematografico è ben reso con il dispositivo del cinema nel cinema cui oggi ricorrono per il vero anche i più scalcagnati registi. Rispetto al film di Moretti, “Il sol dell’avvenire”, che affronta il medesimo tema del vecchio regista alle prese con i problemi della produzione, della concorrenza giovanile sedotta dai nuovi mezzi digitali, i sogni politici del passato (e purtroppo per lui non i fantasmi erotici malgrado una bella moglie dalle fattezze di Margherita Buy), quello di Salvatores almeno ha il merito di non ritrarre il piangersi addosso di un pariolino come Nanni, il vero e il protagonista del film, su ciò che non è stato, di non compiacersi in un affastellamento di autocitazioni quasi sia un Welles, un Kubric, e non il cineasta con la macchina da presa regalata dal papà. Nel suo film Moretti esagera illustrando non già un regista alle prese con due film, uno reale ed uno dentro quello reale, ma ben tre o forse più: cinema, nel cinema, nel cinema etc. in un superomismo che sembra volerci dire non si esca dalle convenzioni, secondo una idea del tutto incongrua per un comunista che invece pretende, o pretendeva, di cambiare il mondo. Il film racconta una storia riguardante una sezione romana periferica del Pci nel 1956, anno della rivolta contro l’Urss dei cittadini di Budapest, con tutto l’armamentario ideologico dei comunisti poveri tutti casa e proselitismo. Ma, raccontando i dispositivi del film stesso, con le scene finte visibili, gli attori al trucco e le loro personali visioni su come vorrebbero essere diretti, si incontrano altri film, quello di un giovane regista piegato alle esigenze del pubblico che ama Gomorra e la violenza (ma Moretti ha mai visto un film di Tarantino?) uno tratteggiato ancora da scrivere e uno invece descritto, ovvero una storia d’amore con tante belle canzoni italiane. Anche il film di Moretti fa talvolta sorridere come quello di Salvatores, ma quando accade è per la sua insistenza su temi cinematografici e reali del tutto desueti, solo suoi, tuttavia affermati quali grandi pezzi d’opera con ingenua, o finta ingenua, certezza. Così ad esempio la difesa del vecchio caro cinema, che non è il suo (si pensi alla battuta su Casavettes inteso lontano dalle proprie predilezioni registiche) contro il cinema dei giovani o i grandi gruppi di produzione mondiale, come Netflix, in una sorta di donchisciottismo privo di senso rispetto al necessario uso delle nuove tecniche e al necessario riscontro globale. Che forse Marx avrebbe mai indotto gli operai a distruggere le nuove macchine elettrificate che sostituivano le loro braccia? E alla nostalgia per i vecchi modi di fare cinema, pure armati di superotto, corrisponde la nostalgia per le sue vecchie idee comuniste, essendo del tutto insopportabile ritenere, come vorrebbe facessimo che, se Trotskij fosse sopravvissuto alle picconate del sicario di Stalin, se il Pci nel 56 si fosse distaccato dall’Urss (ma poi chi avrebbe sovvenzionato il partito? Le feste dell’Unità?) l’italia sarebbe potuta essere un paese felice. Insopportabile non solo perché la storia non si fa con i se, quanto per il modo di affermare attraverso il potere dello schermo una presunta superiorità culturale (mostrata attraverso i borghesissimi Renzo Piano e Corrado Augias chiamati in scena) di chi è stato comunista, essendo lo snobismo intellettuale tipico dei piccolo borghesi qual è Moretti che chiude il film con una sfilata di maestranze del cinema, attori e attrici che condividono le sue idee, agitanti lugubremente bandiere rosse, con il sottofondo della musica felliniana mentre Nanni compare in mezzo sorridente facendo ciao ciao con la manina alla maniera dei tifosi (di se stesso in questo caso) al giro d’Italia. E sulla vecchiaia è anche il film “Esterno notte” di Bellocchio su cui è difficile dire essendo andato in versione ridotta alla tivu, ripresa dalla serie televisiva, e diverso dalla versione cinematografica. Da quanto si è visto, tuttavia, malgrado Bellocchio sia un maestro vero, emerge qualche perplessità sul modo tutto cinematografico, ma forse non adatto a una storia tragica vera che ha colpito tutti gli italiani, di giocare con i tempi scenici, come è ad esempio per il cosiddetto cameo di Ruggero Cappuccio, intervenuto con il suo nome sullo schermo, nella parte di un docente universitario che allestisce un’opera teatrale sul rapimento Moro presa sul serio da una monaca che avverte la famiglia. L’ambiguità della sovrapposizione di storie e tempi diversi potrebbe ritenersi coinvolga l’intero film, con l’attore Gifuni più vero del vero Moro circondato dagli altri politici democristiani che invece sembrano caricature di sè, o con la confessione di Moro che appare essere maggiormente una riflessione del regista sulla morte. Sarà per questo che Maria Fida Moro, primogenita dello statista indispettita dall’intreccio tra realtà e fantasia, ha affidato alla stampa il suo sfogo: “O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace”.