Samusà: frizzi e lazzi, ma non sempre - Le Cronache
teatro Spettacolo e Cultura

Samusà: frizzi e lazzi, ma non sempre

Samusà: frizzi e lazzi, ma non sempre

Virginia Raffele in un teatro Verdi sold out non accontenta proprio tutti, rallentando il ritmo tra Giorgia Mauro e la lunghissima telefonata della Signora Donata Stirpe, sulle tracce di Franca Valeri, riprendendosi la scena con la Carmen e i fuochi d’artificio finali

Di Olga Chieffi

“Un magnifico baccano da circo – diceva Nietzsche del preludio della Carmen di Georges Bizet -Per essere così disinvolto e rumoroso, questo tema, che esprime così bene l’allegria della festa, non è per nulla volgare a dire propriamente, perché è veramente personale”. Virginia Raffaele è anche Carmen nel suo Samusà, quella parola nel gergo dei giostrai, divisa tra Far silenzio e divertimento, una “parlata” usata per non far intuire nulla ai “contrasti” come i musicisti napoletani comunicano attraverso la parlesia una specie di slang, nato nel ‘700, che veniva usata dalle più infime categorie sociali. Bisogna far silenzio, poiché la Raffaele vuol rivivere la noise, da dove è venuta, il LunEur, l’origine, quello spazio invaso interamente dal clamore, dall’afrore di sudore, misto a polvere da sparo, del tiro al bersaglio, dal profumo delle caramelle, del croccante appena compattato sul marmo, dello zucchero filato. Il silenzio non esiste è un’apparenza, mentre ai cancelli verdi regna l’attesa, il rumore è lo sfondo dell’essere di Virginia Raffaele. Ma quanto rumore si deve fare per imporre silenzio al rumore? Tanto, a cominciare dall’ entrata in scena nel turbante tutti-frutti di Carmen Miranda con il Chica Chica Boom Chic. Quindi, accompagnata da tre “bianconigli”, si spalancano i cancelli del Luna Park dove è nata e ha vissuto Virginia Raffaele, sognando la casa, al contrario degli altri ragazzini che aspiravano di vivere tra le giostre, inseguendo la meraviglia di questo luogo sinestetico, mettendosi alla prova, vincendo paure di ogni genere, da quella del vuoto a quella di un insuccesso in un gioco, che è anche una sfida, come quella della vita. Sognava la casa la piccola Virginia e alla chiusura del LunaEur ha dovuto porre in discussione la certezza, le proprie radici per rimettersi sempre in gioco, per vivere nello spazio, senza misure, del mondo, ad armarci e partire in un continuo ripetere un gioco. L’indefinitezza spaziale in cui si svolge il suo movimento del peregrinare, si risolve ogni volta nella totalità dell’istante. Dalla sua energia visionaria l’invito al venir-meno, a pervenire a quell’infinito eccesso che possa farci arridere all’impresa. Ecco allora la Ballerina tutti specchi al centro della giostra, la parodia di Patty Pravo che fuma il narghilè come il Brucaliffo “Tranquilli, non è marija, è hashish” riflettendo sulla sua vita: “Ho creduto tanto nell’amore, infatti mi sono sposata cinque volte. Con il primo marito ho perso la erre, l’ultimo non mi ricordo mai come si chiama: è come per i sette nani”, prima di chiudere cantando “Dimmi che non vuoi morire” con tanto di “stonature” perfette della Pravo rifatta che non può aprire la bocca. L’invito ad andare a Messa è il messaggio latente dell’intero spettacolo, tanto che al LunaEur giunge anche il Papa. Ce lo fa notare la complottista, una che combatte quelli che “scelgono la via più facile di credere all’evidenza”, una che unisce i puntini con tecniche di ragionamento assurdo per arrivare a conclusioni strampalate (1 più 1 fa 1). Quadro dopo quadro, la divisione tra alto e basso della cultura, tra il colto e il popolare, realtà e metafora, esperienza e fantasia, si mescolano in un tempo altro: al tiro a segno si avvicina il napoletano cafone, la torinese, la trans brasiliana, la veneta razzista. Note dolenti con Giorgia Maura, l’eterna scartata dai talent e in particolare co la telefonata della Donata Stirpe, due “numeri” lunghi e lenti, in particolare la telefonata, che neanche colei che l’ha inventata, la carismatica Franca Valeri, la sora Cecioni, azzardava oltre i cinque minuti. Alla fine della telefonata la spina è staccata e la mente non può non andare alla solitudine degli anziani e il loro sfiorar la morte, pur  avendo ancora molto da dare. Finalmente, si canta e si fischia a livelli altissimi con la Carmen di Bizet e “L’amour est un oiseau rebelle”, senza dimenticare la situazione e l’atmosfera di “Je cherche après Titine”, nata dalla pura improvvisazione, di Tempi moderni, di quel Sir Charlie Chaplin venuto alla luce in un campo rom. Finale con “giardinetto” colorato, ironico e pirotecnico, Ornella Vanoni tra gorgheggi e vaneggi “ma che due maroni il luna park andai con Gino Paoli sul BrucoMela, Sabrina Ferilli che ha finto di “rompere le scatole a Sanremo”, Belén, il lato B e Bianca Berlinguer, Sandra Milo, simbolo di quel girotondo da circo che è Otto e mezzo, del quale riecheggia anche la colonna sonora e un saluto a Carla Fracci dopo aver stroncato lo spettacolo come “uno zoppicante saggio di fine anno”, rivela che non dismetterà mai la sbarra, ovvero la ricerca della perfezione, di un quel qualcosa che manca, che non si ottiene, viatico per tutti gli artisti e naturalmente anche per la Virginia Raffaele. Applausi convinti del pubblico alla Raffele, ma ancor più alla costumista Giovanna Buzzi, artista da Oscar con due premi Abbiati per i migliori costumi lirici dell’anno nel 1990 e nel 2005 e al regista Federico Tiezzi, con qualche fischio per gli autori, i quali in diversi punti hanno perso ritmo e appeal.