Tutta interiore la scelta del regista Henning Brockhaus per l’Otello realizzato in coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo al Teatro San Carlo di Napoli nello scorso aprile a partire dal giorno 13 con ultima replica il 29 ( che è quella cui abbiamo assistito), per la ripresa napoletana lo spettacolo si è avvalso della regia di Valentina Escobar. Né vele spiegate o tempeste simulate, è bastato l’uragano di timbri, suoni e urti dissonanti assieme alle esclamazioni turbinose del coro, voluti dalla partitura verdiana, ad immetterci nello sconvolgimento degli animi e dei valori di un mondo in decadenza in cui viene a iscriversi la terribile vicenda di una crisi di identità come quella di Otello e di una sovversione di valori mai come oggi comprensibile alla nostra attualità. Prima ancora dell’attacco del direttore d’orchestra, nella fattispecie Nicola Luisotti, e quindi dell’effettivo inizio dell’opera, una risata malefica di Iago irrompe dal proscenio, fungendo da alzata di sipario per la rappresentazione, quasi un lasciapassare in quel “luogo di distruzione, di guerra e di dissoluzione” in cui il regista ha inteso, secondo le sue parole, rappresentare la tragedia di Otello quale specchio di una tragedia collettiva. Così il nero è il colore dominante delle vesti del coro e dell’intera atmosfera scenica che sembra richiamare alla memoria certa pittura di Rembrandt. Storicizzati i costumi di Patricia Toffolutti, riportati ad ambienti e contestualizzazioni storiche evocate anche da quadri e arazzi dell’epoca, ma tanti i simboli e gli elementi stranianti. In primis le figure clawnesche e le maschere evocanti il carnevale veneziano che popolano in più momenti la scena lungo l’intero arco della rappresentazione con eleganti coreografie (i movimenti mimici sono stati curati da Jean Méningue, scenicamente il clown), ora a indicare l’essenza del teatro, ora a materializzare angosce ricordi e pensieri nascosti dei protagonisti, estrinsecazione di un doppio della coscienza e dell’interiorità dei personaggi (come i cattivi pensieri che invadono la mente di Otello materializzati all’inizio del terzo atto). Non mancano oggetti scenici quali armature, elmi, fantocci variamente spostati e maneggiati dagli interpreti, statue e idoli sacri attaccati e distrutti come durante il Credo di Iago, o ricomposti, è il caso della statua simboleggiante la Madonna, durante la preghiera dell’ultimo atto di Desdemona, un cembalo capovolto nel quarto atto. Le scene di Nicola Rubertelli con giochi di pannelli che si aprono e si chiudono stratificando i luoghi della rappresentazione, il sapiente uso chiaroscurale delle luci di Alessandro Carletti completano l’atmosfera. L’ottimo cast ha di volta in volta messo i risalto l’intensità drammatica del capolavoro verdiano. Commovente è risultata la parabola discendente verso la disperazione in cui precipita Otello descritta convincentemente dal tenore Marco Berti, incisivo anche se in qualche caso disuguale nell’emissione vocale, perfetta e limpida nella vocalità Lianna Haroutounian, elegante e classica Desdemona, appropriato e senza eccessi, scenicamente e vocalmente, lo Iago di Roberto Frontali. A completare il cast Alessandro Liberatore (raffinato Cassio), Antonello Ceron (Roderigo), Seung Pil Choi (Lodovico), Anna Malvasi (sicura Emilia), infine Giuseppe Scarico (l’Araldo, nelle altre recite affidato ad Antonio Di Matteo). A tenere le fila dello sfaccettato e rinnovato dramma verdiano laddove l’elemento orchestrale risulta anch’esso interprete di primo piano negli esiti finali della ricerca drammaturgica dell’autore, oltre che interlocutore dialettico della scena, il direttore Nicola Luisotti tutt’uno con il duttile e musicale complesso sancarliano. All’altezza come sempre il coro guidato da Salvatore Caputo e quello di voci bianche diretto da Stefania Rinaldi
Rosanna Di Giuseppe