di Giuseppe Gargani
Qualche settimana fa in un convegno a Salerno l’onorevole Piero De Luca, nel contesto di un discorso molto puntuale sulla giustizia, ha detto che è necessario conservare un ruolo primario al Parlamento soprattutto in materia di giustizia perché riforme complesse e certamente “tecniche“ come quelle sulla giustizia non possono essere lasciate alla decisione degli elettori che hanno una funzione fondamentale per la democrazia ma hanno difficoltà a cogliere il significato complesso dei quesiti referendari. Gli ho risposto che rispettavo il suo pensiero e anzi avvertivo una qualche nostalgia e forse una qual tenerezza perché oltre quarant’anni fa, in presenza del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, nella qualità di presidente della commissione giustizia, avevo fatto lo stesso discorso, forse con le stesse parole! Ho capito fino in fondo lo spirito autentico di un parlamentare giovane che è animato dalla volontà di “fare“ le riforme… il problema è che sono passati quarant’anni! Inutilmente!
Il particolare da mettere in conto è che è appunto trascorso tanto tempo e nonostante l’impegno mio per il passato e di tanti colleghi ugualmente “animati”, non si sono fatte le riforme e la situazione è talmente peggiorata che assistiamo ad un coro unanime di addetti ai lavori, di giuristi, di esperti, di cittadini comuni sulla crisi della giustizia e sulla denegata giustizia. Che fare?
Se il Parlamento, nonostante quel referendum sulla responsabilità per i magistrati avesse dato una risposta positiva al 70%, non è stato in grado di tradurre con una legge adeguata quel largo consenso al quesito (non me ne rendo conto adesso, ma ero convinto anche quando ho votato l’unica legge possibile su quell’argomento) vuol dire che anche da parte mia è giusto invocare il giudizio degli elettori.
E riconosciamo che il Parlamento non è stato in grado successivamente di aggiornare l’ordinamento giudiziario non più adeguato alla nuova realtà.
L’ultimo tentativo di riforma, modesto ma significativo, della ministra Cartabia aspetta ancora il voto del Senato e il significato vero dei referendum, è quello di sollecitare il Parlamento a proseguire oltre le proposte della Cartabia e a modificare norme che non sono più difendibili.
Ripeto un mio parere già espresso: la meraviglia è che i magistrati, salvo pochissime eccezioni, e l’Associazione nel suo complesso sono contrari al referendum anzi lo ritengono una lesa maestà , una sorta di punizione. Come mai persone che praticano tutti i giorni il “giure”, che dovrebbero avere il culto del diritto che, come dice il professor Cassese avvicina alla migliore musica di Bach, sono chiusi nel loro corporativismo e nella loro assoluta “autonomia” che in questo caso è il contrario dell’indipendenza.
Meraviglia anche l’on. Violante che nell’ultimo periodo e nell’ultima intervista si dichiarava favorevole per alcuni quesiti ma ripete che la consultazione richiesta “sa di vendetta della politica contro la magistratura”.
È questo grave equivoco che bisogna eliminare.
In un precedente articolo mi ero riservato di spiegare le ragioni dei singoli referendum, e lo faccio tenendo conto anche dei pochissimi dibattiti che la televisione ci offre in ore improbabili, perché invece in ore opportune ci offre una filippica “contro“, come nelle frasi forzatamente spiritose e denigratorie della signora Letizietto che non avrebbero alcuna rilevanza se non fossero autorizzate da un conduttore come Fazio a cui tutti riconoscono una dimensione culturale che in questo caso è compressa da logiche superiori.
Il quesito più importante è quello delle separazioni delle funzioni tra giudice e pubblico ministero che è una cosa sacrosanta, avvertita da tutti cittadini, perché è un processo in tutto il mondo è fatto di una parte che accusa, una che difende e un terzo che giudica. Quest’ultimo deve essere al di sopra delle parti così come prescrive la Costituzione art. 111. Ognuna di questi tre elementi fa il suo mestiere che non è mutuabile cioè un giorno si svolge un ruolo e un altro si svolge un ruolo diverso.
Sono anni che tentiamo di eliminare questa patologia del processo ma I magistrati sono compatti a difenderla questa anomalia tutta italiana.
Non amo fare i paragoni con altri paesi ma l’anomalia italiana è unica rispetto ai paesi democratici e questo deve pur significare qualcosa.
Se commemoriamo Falcone in questi giorni dobbiamo ricordare quello che disse più volte che “la regolamentazione delle funzioni delle stesse carriere dei magistrati dei pm non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diversi essendo le funzioni, e quindi attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi investigatore a tutti gli effetti il pm, arbitro della controversia il giudice.
Altro quesito di eccezionale valore, e che non ha bisogno di sofisticati competenze tecniche per essere compreso, è quello di stabilire che il magistrato possa utilizzare la custodia cautelare in carcere solo per casi eccezionali come prescrive il codice.
Ogni cittadino è a conoscenza del sistema arbitrario che il magistrato usa per la custodia cautelare come strumento di indagine, come pressione sull’indagato. E siccome il 50% circa degli indagati viene poi assolto con il successivo rimborso per il danno procurato da parte dello Stato, ognuno può rendersi conto dell’importanza del quesito.
L’anticipazione della pena non è consentita in uno stato democratico.
Sulla abrogazione del decreto legislativo numero 31/12/2012 N. 235 cosiddetta legge Severino, la situazione è un po’ più complessa ma in sostanza limpida e chiara.
La legge aggrava irrazionalmente e in maniera non proporzionale pene per una serie di reati, che costituisce uno squilibrio nell’ordinamento penale e sarebbe lungo esaminare tutte le storture evidenziate da giuristi e da magistrati autorevoli.
Voglio poi ricordare che è previsto nella legge il reato di “traffico di influenze” definizione stravagante conseguenza della cosiddetta “raccomandazione”. Si tratta di un reato senza una “fattispecie” precisa lasciando quindi davvero una delega completamente in bianco ai magistrati.
Ne parlano in pochi di questo sgorbio giuridico ma basterebbe solo questo per sopprimere la legge.
È stato detto che questa normativa introdotta nel 2012 è una barriera all’illegalità nella pubblica amministrazione, come se nel tradizionale e completo codice non ci fossero norme equilibrate proporzionali rispetto all’entità del reato, per regolare l’attività della pubblica amministrazione. Il qualunquismo giuridico è più pericoloso della demagogia!
Ma c’è di più. La legge esaspera il problema della candidabilità per gli enti locali e per il Parlamento anche per chi non è condannato in maniera definitiva.
Sono norme che vanno contro la Costituzione che prevede la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva e ora tradotte finalmente una norma legislativa e quindi precettiva. Anche su questo quesito non è necessaria la conoscenza di “pandette”, ma serve per fare mente locale ai tanti amministratori sospesi o non candidati che poi sono stati assolti!!
Ma su questo quesito mi sento di dire una cosa importante che risponde allo “spirito” del referendum. Ad ascoltare i fautori del “no” sembra che tutto il paese abbia amministratori e parlamentari condannati. Non è assolutamente così rilevo che nessun condannato con sentenza definitiva è stato mai candidato. Queste cose non possono essere risolte dalla legge, non possono essere demandate ai magistrati ma debbono essere approvate dai partiti, da chi seleziona la classe dirigente che poi naturalmente rispondono al popolo.
Questo è il messaggio principale da affidare ai cittadini. I quali hanno il grande privilegio di poter votare e hanno un obbligo morale di fare arrivare al parlamentare il messaggio chiaro.
Giuseppe Gargani