Don Antonio Romano: “I rifugiati ucraini tornano in Patria Fallita l’accoglienza” - Le Cronache
Salerno

Don Antonio Romano: “I rifugiati ucraini tornano in Patria Fallita l’accoglienza”

Don Antonio Romano: “I rifugiati ucraini tornano in Patria Fallita l’accoglienza”

di Clemente Ultimo
Una grande stanchezza. E la metà, circa, dei rifugiati arrivati a Salerno nelle prime, caotiche settimane di guerra che ha scelto di restare. Ad un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina questo – in sintesi estrema – quel che resta dell’emergenza profughi e della mobilitazione, più o meno organizzata, che l’ha accompagnata. Una vicenda che ha portato anche a Salerno e nella sua provincia l’esperienza diretta del conflitto, facendo sì che per la prima volta dal dopoguerra la percezione di quanto sta accadendo sia stata non solo quella trasmessa dai mezzi d’informazione, ma anche l’esperienza vissuta in maniera più o meno diretta da molti. Partecipare a raccolte di beni di prima necessità, al lavoro delle associazioni di volontariato o, più semplicemente, aiutare figli o nipoti della badante di casa ad arrivare in Italia è stata esperienza comune a tanti. Tuttavia anche l’emergenza vissuta in maniera così diretta, inevitabilmente, con il trascorrere del tempo è lentamente scolorita in nuova normalità. Il caro bollette, l’inflazione galoppante, il timore dell’estendersi del conflitto con le sue ombre nucleari, tutto questo e mille altre piccole e grandi urgenze hanno relegato in fondo alla scena l’emergenza rifugiati. Per provare a capire ad oggi qual è la situazione dei rifugiati ucraini, per provare a tracciare un primo bilancio di come ha funzionato la macchina dell’accoglienza, di quel che c’è ancora da fare, c’è un osservatorio privilegiato: la Caritas diocesana. In trincea – è proprio il caso di dirlo – fin dalle primissime ore, la Caritas è probabilmente l’ente del Terzo Settore che maggiormente ha assorbito l’impatto dell’emergenza. «Oggi – dice don Antonio Romano, vicario alla Carità della Diocesi di Salerno – circa la metà dei rifugiati arrivati a Salerno nelle prime settimane di guerra ha fatto rientro in Ucraina. Nel momento di maggior impegno presso le dieci strutture che siamo riusciti ad attivare in tutta la diocesi – grazie al contributo di parrocchie, congregazioni ed associazioni – abbiamo assistito non meno di 150 persone. E per assistenza intendo che ad ognuna è stato fornito vitto, alloggio e tutto il necessario per vivere dignitosamente, oltre ovviamente all’assistenza per l’espletamento delle pratiche burocratiche. Se prendiamo in considerazione quest’ultimo aspetto le persone che abbiano seguito, per documenti come permessi di soggiorno o tessere sanitarie o per altre esigenze, sono davvero numerosissime, difficile condensare in un numero preciso. Attualmente ospitiamo 67 rifugiati; questo ci ha consentito di chiudere alcune strutture la cui gestione stava diventando davvero difficile: il caro bollette ha portato le spese alle stelle e le risorse sono quel che sono. Determinanti sotto questo profilo sono state le risorse frutto delle raccolte straordinarie delle prime settimane di emergenza ed il progetto A.P.R.I. Ucraina di Caritas italiana». In tanti hanno scelto di fare rientro in Ucraina: la guerra non spaventa più? «Quel che abbiano notato è che a rientrare sono soprattutto gli abitanti delle regioni occidentali, quelle meno colpite dalla guerra, lontane dal fronte. Poi, ovviamente, pesa la lontananza dai familiari, dalla propria comunità. Inoltre non è da sottovalutare, in questa decisione di rimpatriare, la necessità di badare alle proprie attività: chi ha lavoro o imprese da gestire, se c’è un minimo di sicurezza, rientra». Chi è rimasto? «In linea di massima gli appartenenti a due categorie ben diverse: o chi ha perso tutto perché viveva nelle regioni attraversate dal conflitto o chi, già prima della guerra, era alla ricerca di una via d’uscita dall’Ucraina perché privo di prospettive». Per chi ha scelto di restare è stato possibile avviare un percorso di integrazione? «Su questo fronte i risultati sono stati molto scarsi. La lingua si è rivelato un ostacolo formidabile e, dispiace dirlo, molti dei rifugiati non hanno fatto alcuno sforzo in questo senso: in tanti si sono semplicemente rifiutati di imparare l’italiano pur avendone l’opportunità. Molti hanno preferito chiudersi all’interno della propria comunità. Dall’altro lato la scarsa possibilità di ottenere lavoro non ha aiutato: gli impieghi offerti si riducono, di fatto, alla cura degli anziani o a servizi ausiliari nel settore ristorazione. Lavori pesanti e con retribuzioni non esaltanti, tanto che sono stati solitamente rifiutati». Nelle prime settimane di emergenza si è assistito ad una grande mobilitazione di associazioni e singoli, cosa resta di quello sforzo collettivo? «Una stanchezza generale. Un esempio: le parrocchie che hanno accolto i rifugiati sono al limite, i costi per l’ospitalità sono lievitati in maniera imprevedibile e, nel contempo, si riducono le risorse.
Anche perché in tanti sono costretti a fare i conti con una situazione economica difficile, che lascia poco spazio alla beneficienza. E poi ci sono le nuove emergenze: il terremoto che ha colpito Siria e Turchia richiede un nuovo impegno economico in sostegno di popolazioni in grande difficoltà. E poi ci sono le difficoltà burocratiche». Nessuna semplificazione? «Nella gestione dell’accoglienza lo Stato ha fallito completamente. A conti fatti è stato il Terzo Settore, in tutte le sue articolazioni, ad assorbire il colpo della fase emergenziale. E nonostante questo non c’è stato mai un reale confronto su problemi e necessità, anzi in qualche caso si sono verificate situazioni paradossali. Si pensi che alcuni bandi richiedevano la messa a disposizione di strutture vuote, mentre quegli spazi erano già occupati dai rifugiati: paradossalmente avremmo dovuto mettere in strada chi era stato accolto per accedere ai bandi e quindi alle risorse.
E questo corto circuito dura ancora: entro il prossimo 4 marzo scadranno molti dei permessi di soggiorno concessi ai rifugiati, ne è stata già decretata la proroga fino al 31 dicembre, tuttavia non ci sono indicazioni sulla procedura di attuazione.
Cosa succederà? Che si arriverà all’ultimo momento utile e gli uffici saranno travolti da un sovraccarico di lavoro che li metterà in crisi, con evidenti disagi per gli uffici stessi e per le strutture che assistono i rifugiati».