È uscita, a pochi giorni dalla sua scomparsa, la monumentale opera di Franco Tozza sul teatro a Salerno: due volumi, editi da Francesco D’Amato, che riassumono in circa 1500 densissime pagine la storia del teatro e dei teatri a Salerno. Una ricerca profonda che lega le vicende culturali salernitane, svoltesi in più di tre lunghi secoli, alle dinamiche artistiche nazionali e internazionali e che concretizza una vita di studio e di lavoro dedicata alla storia e alla critica teatrale. Pubblichiamo, di seguito, l’intervento del regista e attore Pasquale De Cristofaro, letto nel corso della presentazione del volume svoltasi nell’affollato salone della Pinacoteca provinciale di Salerno (gli altri interventi sono stati dei professori Alfonso Conte e Rino Mele).
di Pasquale De Cristofaro *
Franco ha avuto competenze vastissime: dalla musica al cinema, dai linguaggi performativi così cari alla sperimentazione, al teatro; ecco, ed è stato proprio il teatro che ci ha, per lunghissimo tempo, accomunati: il teatro vissuto da entrambi come passione profonda e necessità esistenziale. Le drammaturgie, i corpi degli attori, la regia. Ha amato la tradizione e la sperimentazione; non è stato mai settario; intransigente, rigoroso, questo sì, ma non settario. Quante volte mi ha detto, nelle lunghe conversazioni sull’argomento, che negli anni in cui la parola d’ordine era, la scrittura scenica, il teatro immagine, dove i testi scritti dovevano essere messi definitivamente da parte per essere “assolutamente moderni”, lui, pur abbracciando queste iconoclaste e radicali posizioni, amava, con pari passione e con lo stesso trasporto gli spettacoli di Strehler, di Bergman, di Squarzina ( non tutti, magari) e di altri grandi maestri che hanno lasciato segni così profondi nella memoria di tanti spettatori, e che rappresentavano letture spesso più profonde e analitiche di autori quali, Goldoni, Ibsen, Pirandello, Strindberg, Shakespeare… (A tale riguardo, Roberto Alonge più volte ci ricorda che sempre più spesso in teatro si assiste a spettacoli in cui i registi ormai non hanno più alcuna perizia, o voglia di leggere i testi della tradizione teatrale italiana ed europea, abbandonandosi ad imbarazzanti fraintendimenti e puerili quanto sterili risultati). Franco, però, amava i tradimenti. Ogni messa in scena è inevitabilmente un tradimento del testo scritto, ma i tradimenti devono presupporre vero talento e arte. Amava, insomma, il teatro che si faceva col testo, non subordinato al testo. A tale riguardo, non va dimenticato che per amore delle scene, Franco ha svolto anche per un tempo molto lungo, una rara e profonda militanza critica, scrivendo per importanti riviste nazionali di settore; sobbarcandosi, a volte scomode e faticose trasferte che lo portavano in giro per il Paese (scomode e faticose anche perché ogni lunedì era in classe ad insegnare filosofia ai suoi amati studenti di un importante liceo cittadino). Insomma, era e lo trovavi sempre nei posti in cui il “nuovo” accadeva. Accompagnava il suo sguardo dolce, col piglio severo dell’uomo rigoroso, apparentemente, difficile, perché “franco”; in fondo, però, la sua qualità migliore è stata la generosità. E’ stato molto generoso, soprattutto, con i giovani teatranti di questa città, ai quali non hai mai fatto mancare, assieme ai suoi severi giudizi, il suo incoraggiamento. Ma adesso veniamo a questa pubblicazione. In Italia si pubblicano moltissimi libri nonostante i lettori siano sempre meno; molti sono, in realtà, inutili; tanti, sono buoni; pochi, quelli veramente necessari. Tra questi, i libri che Franco ha voluto lasciarci come prezioso testamento. Un libro importantissimo di storiografia teatrale salernitana, per anni parcheggiato nelle mani di editori maldestri che non sono riusciti a pubblicarlo. Dico subito, che avendolo visto in gestazione e nelle bozze e ora finalmente pubblicato, che si tratta di un libro necessario quanto imponente nel suo apparato fotografico e di note, che rappresenterà, per tutti coloro che studiano il teatro e per chi lo pratica, una conoscenza essenziale per meglio definire le prospettive passate e recenti della scena salernitana. Il libro di una vita che sa restituire non solo atmosfere e stagioni trascorse ma che, in modo scientificamente inappuntabile, darà strumenti nuovi per i giovani studiosi di tale disciplina. Ma anche per chi non è del campo, troverà, qui, spunti per capire meglio la nostra città nei suoi molteplici aspetti. Infatti, avendo un taglio così analitico e puntuale sarà possibile fare tutta una serie di particolari riflessioni sulla società civile della vecchia Salerno. Si sa che il Teatro e la città sono da sempre fin dai Greci un binomio che cammina parallelamente. Si può studiare la società, studiando il teatro e la sua organizzazione, e viceversa. Intanto, è impossibile poter dire o tentare di riassumere in poche battute la complessità del questo testo; ma, sarà opportuno, qui, ribadire il saldo ed incontrovertibile convincimento che è alla base di tutto l’approccio che ha guidato Franco in questa sua serissima avventura; e lo faccio, riportando quello che Franco stesso scrive ad un certo punto nella sua introduzione: “Questo dell’ideologia letteraria o, per meglio dire, dell’identificazione del teatro con la letteratura, è stato – com’è noto – uno degli “idola” più resistenti nella teatrologia più o meno recente: ha contagiato molti ed eminenti uomini di teatro, nel tentativo di offrire la permanenza dei valori estetici anche ad un’arte che sembra destinata, invece, a perdersi nel tempo. Ne fu irretito, almeno fino ad un certo momento, lo stesso Pirandello che, in una delle più struggenti metafore della storia del teatro, lasciò alla deriva i suoi famosi Sei personaggi, alla ricerca di un autore… ancora, insomma, incredulo sulle capacità del palcoscenico di cogliere e conservare il preteso valore immutabile del testo. Salvo poi ricredersi, e pensare, “(…) Se un’opera d’arte sopravvive è solo perché noi possiamo ancora rimuoverla dalla fissità della sua forma, sciogliere questa sua forma dentro di noi in movimento vitale; e la vita gliela diamo allora noi, di tempo in tempo diversa, e varia dall’uno all’altro di noi; tante vite e non una”. Ancora Tozza:” Discorso non diverso va fatto nei confronti della storiografia teatrale, che non può prescindere dalla messa in scena… non deve rinchiudersi nello spazio letterario, all’interno del quale ci si preclude lo sguardo su altre componenti della variegata fenomenologia teatrale, pervenendo spesso a forme di incomprensione davvero abnormi”. Certo per lo storico lo spazio letterario, nella sua fissità, è più rassicurante, come lo è del resto lo spazio architettonico. Ma se si lascia il tavolino, sul quale al massimo possono analizzarsi i testi, la letteratura, appunto e si passa alle tavole del palcoscenico, be’ allora è tutta un’altra storia. Già dalla seconda metà degli Anni Settanta si impone nello studio del teatro un doppio paradigma: da un lato, la “cultura materiale”, dall’altro l’ideologia teatrale. Cioè “da una parte un punto di vista interno sulle arti sceniche, la materialità del teatro, il suo concreto mettersi in atto, i processi, le scelte, le aggregazioni che diventano teatro di fronte a un teatro che si realizza per applicazioni ed esclusioni rispetto ad un modello” (Cruciani); e, dall’altra, appunto le idee che nei secoli sono state apposte dall’esterno, che nella riflessione di Taviani assumono il nome di “visioni del teatro”. Sulla scia di Marotti, Molinari, Meldolesi, Taviani, e, soprattutto, Cruciani, Franco- che ricordo è stato molto vicino ad Achille Mango, sceglie da che parte stare, senza però alcuno estremismo, proprio per ciò che dicevo prima. A tale proposito, sarà utile ricordare che Franco per Tullio Pironti editore, nel 1991, aveva già pubblicato “Lettere sopra l’arte d’imitazione” di Angelo Canova, un trattato sulla declamazione e recitazione pubblicato per la prima volta dopo un non casuale decennio di attesa, nel 1839. Riflessioni epigonali sulla scia della grande trattatistica settecentesca da Diderot, a Rousseau, a Lessing. Anche la recitazione, dunque, come un problema per i veri storici del teatro.E ora, l’altra nostra grande passione comune, dopo Pirandello; la divina Duse (tra l’altro questo è l’anno dell’anniversario della sua morte, 1924). L’attrice, la musa, l’irregolare, la donna di scena che può essere considerata come la fase epigonale del fenomeno del grande attore e che, al tempo stesso, per la sua particolarissima natura anche l’apripista del nuovo teatro. Guarderanno a lei tutti i più grandi drammaturghi e uomini di scena facendone il vertice delle proprie aspirazioni e utopie. Una donna dal fascino particolarissimo, non bellissima né dotata di una voce potente, eppure… Feci uno spettacolo anni fa coinvolgendo Ugo Marano, Michele Monetta, Geppino Gentile e Rosanna Di Palma sulle Elegie duinesi, che presentammo la prima volta all’università ospiti della prof.ssa De Luca e il prof.re Vitiello. Lì, tra le altre cose portavo in scena l’immagine della Duse che entra in scena nascondendosi dietro un mazzo di rose, che tanto aveva colpito Rilke (tanto da descriverne il momento in una delle pagine più struggenti del suo straordinario quanto atipico romanzo dei Quaderni di Malte). Come sempre Franco era affianco a quel mio spettacolo (è stato in questo, per me, davvero un fratello maggiore. Spesso severo, spesso convinto ma sempre carissimo), fu molto colpito da quell’entrata in scena che rappresentava la forza di una presenza che si nega. La forza della Duse, quindi, era la sua capacità antiretorica, la sua capacità di lavorare sulla sottrazione, la cifra di un recitare moderno, un continuo “levare”. E alla Duse è dedicato un breve paragrafo del suo libro: “Eleonora Duse a Salerno: cronaca di un evento annunciato e irrimediabilmente perduto”. In realtà, Tozza, spulciando cronache e giornali dell’epoca, senza lasciarsi sviare da inopportune memorie, da vero topo di biblioteca (altro aspetto notevole di questo libro tutto basato su documenti certi, visti e analizzati) chiarisce con estrema certezza che, purtroppo, la Duse (non ancora la divina) giovanissima e misconosciuta, allora, in compagnia con la Pezzana e l’altrettanto grande Giovanni Emanuel sulle tavole del massimo cittadino non è mai arrivata con grande rammarico dei salernitani d’allora e anche dell’autore, che più volte ne aveva sognato e/o vagheggiato la presenza per rendere più avventurosa una storia di provincia.Questo, è un libro che resterà per sempre patrimonio di una città che tiene alla sua civiltà e alla sua memoria.L’autore di questo libro sei tu, caro Franco. Per questa tua fatica che è un dono prezioso, tu resterai nella nostra memoria e nella memoria di Salerno per sempre. • Attore e regista teatrale