di Olga Chieffi
Maradona, “Lui”, è stata la parola d’ordine di un’intera città, un potente messaggio di riscatto. Nella sua favola imperfetta, Diego è stato il condottiero che rappresentava il povero contro il ricco, il Sud sospeso nell’abisso che per una volta nella vita sconfiggeva il Nord, l’idolo degli ultimi, El Zorro, alla testa di un esercito di “malati”, nell’eterna attesa di partecipare al rito, di giocare la partita in curva, un palcoscenico infinito quello di Napoli, del suo stadio, di un suo bar, di cui martedì sera, Peppe Servillo e il chitarrista Cristiano Califano, ci hanno resi partecipi, in una sala Pasolini affollata, che ha accolto il loro reading musicale “Il resto della settimana”, pagine vivissime, di Maurizio De Giovanni, che schizzano un quadro sociologico del tifoso napoletano, che naturalmente si allarga a tutti gli sport, vissuti, però, con quel retaggio romantico, scevri di quei secondi fini che hanno ammassato ombre su tante discipline. Quanti hanno una passione sportiva, qualsiasi disciplina si pratichi o si sostenga da “seduti”, si sono certamente riconosciuti nelle “categorie” dei personaggi evocati da Servillo, lo scaramantico, l’eterno ottimista, il pessimista, il sofferente, il malato, in incerta trasferta per quel Juventus-Napoli del novembre 1986. “La loro è una strisciante – scrive De Giovanni – violenta patologia, con sintomatologia multiforme, assolutamente inguaribile. Si contrae in tenera età, spesso per contagio, un padre, un fratello, un amico; più spesso è genetica. Ha incubazione, decorso e crisi con una curva temporale settimanale e culmina la domenica, quando raggiunge la sua fase acuta”. Brillante Peppe Servillo, ironico, spumeggiante, allegro, sembrava esserci al Circolo della Stampa di Torino, vestito d’azzurro, casamatta dei nobili “gobbi”, gli “strisciati” rubentini dell’ Ariston, al seguito del giornalista tifoso del Toro, un’altra maglia, quella granata, che ti porta ad abbracciare una filosofia di vita, che sempre si rifugia nella “memoria” degli Invincibili e quasi intimandoti di credere che oggi si possa ancora giocare in loro nome, invocando ed evocando il quarto d’ora granata, quel momento in cui ciò che sembra impossibile si realizza, in cui un ostacolo che pareva insormontabile viene aggirato e scalzato e superato a colpi di tenacia e perseveranza, annunciato dal suono inconfondibile di una cornetta che segna la discesa in campo di una schiera di divinità, mentre i tifosi del Napoli, targati Buitoni, portano allo stadio sciarpe e bandiere del loro Dio, “Lui”, l’ “Innominabile”, che campeggerà per sempre nel suo San Paolo. Peppe Servillo in duo con l’eccellente chitarrista Cristiano Califano ha regalato al pubblico una “partitura” del sentimento azzurro. Ed eccolo il fermo immagine di Peppe Servillo. “Lui” prende la palla insaccata da Laudrup nella rete di Garellik, la consegna a Bagni e di lì la squadra si trasforma dopo quell’ “istante”. Quell’istante che vale non per quello che seguirà o si prevede che segua, ma di per sé. “Pare che “istante” significhi qualche cosa di simile: ciò da cui qualche cosa muove…” (Platone: Parmenide 156d). E, ancora, il giornalista e scrittore uruguagio Eduardo Galeano: “Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto”. Solo su questo assunto la discesa a rete di Maradona, fuori del tempo seppur velocissima, può trasformarsi in tema musicale, in un dolente ed ossessivo tango. E Califano ha eseguito da gran virtuoso El Choclo, datato 1903, al tempo musica da bordello, della “Guardia veja”, come il jazz, musica che ha dovuto lottare per sopravvivere, dedicata ai ceti più poveri e marginali, che non ha mai abbassato la testa ed è divenuto simbolo di un popolo che si è posto in viaggio sulle sue note. Fermo immagine: è l’istante dello sport, come quello dell’arte l’atto, la vita stessa nella sua pienezza, o, con linguaggio nietzschiano, il dionisiaco. Il punto di riferimento filosofico è pur sempre Bergson e la sua contrapposizione tra tempo-vissuto, tempo interiore e tempo-spazio, seguendo le cui tracce, sia tra le linee del rettangolo di gioco, sul quale ogni volta, sia esso il Comunale di Torino o il cortile del palazzo popolare, o il vicolo di Napoli, si gioca la partita della vita, ci sono linee d’ombra, in particolare quella di porta, davanti alla quale si è attratti dall’incanto dell’esperienza universale da cui ci si attende di trovare una sensazione singolare o personale, un po’ di se stessi, finchè ci si scorge di fronte una linea di gesso, sottile. Ma l’attore, il musicista, il tifoso, non supererà mai quella linea, nel suo sguardo, che sa guardare il cielo sopra la traversa, si leggerà per sempre la meraviglia, quell’infinito “oh!”, che è l’essenza del “puro folle”, incarnazione dell’innocenza e della purezza, come lo stesso del nostro poeta Alfonso Gatto che scrisse “Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita”. Applausi scroscianti e bis con “Lo sfogo del Mister” dedicato a Giovanni Trapattoni e alla sua più famosa esternazione in tedesco, quando allenava il Bayern Monaco e il brano dedicato a “Lui”, “No te mueras nunca”, una dichiarazione d’amore di Juan Carlos Caceres, cantante, compositore, trombonista e pianista, figura chiave dell’esportazione del tango dalla natia Argentina a Parigi, a Diego Armando.